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STORIE OLTRE L'ARCO

Ogni mese pubblichiamo articoli e interviste su arte e creatività che raccontano ciò che accade oltre l'uscio di SD Factory. Oltre l'arco, appunto. Per guardarci intorno, esplorare il mondo fuori e cercare storie. Storie che ci appassionano e che speriamo piacciano anche a te.

Aprile - LFC

Intervista a
Libri Finti Clandestini

Un collettivo cosmopolita e in passamontagna restituisce valore alla carta trovata in giro

Fotografie in b/n su pellicola
© Tanguy Bombonera

Video stop-motion

© 2 M to M - Animation Studio

Fotografie a colori
© Libri Finti Clandestini

Fotografia con maschere
© Lucrezia Di Carne

Libri-finti-clandestini

Ha partecipato a fiere internazionali di arte, editoria e design, dal Canada al Giappone, dalla Korea al Regno Unito, ed è finito su importanti riviste di settore.
Tra esplorazioni in luoghi abbandonati, collaborazioni insolite, sperimentazione e ricerca costante il collettivo
Libri Finti Clandestini esprime la passione per la carta stampata e la grafica in chiave ecosostenibile e ad impatto zero, riutilizzando edizioni di libri vintage, prove di stampa e scarti di tipografia per creare autoproduzioni indipendenti uniche e originali. Da dieci anni.

Come nasce LFC e a quale immaginario rimanda? Quali sono gli obiettivi del collettivo?

Libri Finti Clandestini è un progetto editoriale sperimentale nell'ambito del riciclo, in relazione all'editoria e al design, il cui scopo è quello di realizzare veri e propri libri (sketchbook, taccuini, diari di viaggio, libri oggetto e chi più ne ha ne metta) usando solamente carta trovata in giro.

 

Andando a ritroso nel tempo, il progetto LFC nasce come scommessa durante un Erasmus a Rotterdam nel 2010, e da allora si è sempre basato sulle passioni dei membri fondatori del collettivo (Aniv Delarev, El Pacino, Yghor Kowalvsky) quali editoria e libri oggetto, grafica, attenzione all’ambiente e al “riuso di quello che c’è gia”, concetto alla base della filosofia della decrescita.

 

Sviluppatosi poi nel 2013 tra Roma e Milano attraverso collaborazioni con illustratori, stampatori e artisti, il progetto è diventato in qualche anno una concreta realtà nel panorama delle autoproduzioni indipendenti, venendo distribuito in un centinaio di librerie e negozi tra Europa, America e Asia.

 

L'obiettivo del progetto LFC è dare vita a qualcosa di utile, ben fatto, originale, sfruttando appunto quella "carta trovata in giro" a cui si accennava prima, che la gente considera spazzatura: si potrebbero elencare scarti di tipografie, prove di stampa e carte di avviamento, sacchetti della spesa, poster, buste, sacchetti del pane, persino carta da parati.

 

Tutte le produzioni LFC si basano infatti  sul riutilizzo di scarti cartacei provenienti dai luoghi più disparati: laboratori di stampa, fabbriche abbandonate in giro per l'Europa, università, biblioteche e magazzini, festival, case di amici...

 

La carta, una volta recuperata, viene dunque pazientemente assemblata e rilegata a mano, trasformata in quaderni, sketchbooks, notebooks o libri con copertina rigida pronti per essere disegnati, scritti o per assumere qualsiasi altro significato il possessore voglia dargli o in piccole edizioni di libri pop up che hanno come soggetto dei personaggi provenienti da un immaginario di fine ‘800 / inizio ‘900 (nella pratica trovati in vecchie enciclopedie, libri o, banalmente, su internet) che prendono vita all’apertura delle pagine attraverso meccanismi di taglio/piega.

Libri-Finti-Clandestini-quaderni-e-sketchbook

Ci sono state influenze determinanti per LFC?

Le influenze che hanno fatto sì che potesse nascere il progetto LFC sono molte, e soprattutto in molti campi; senza citare nomi particolari, cercando di ricordarsi, viene in mente che il progetto è nato ispirandosi a (principalmente) altre piccole realtà di grafica, editoria e inerenti al libro, ma varie suggestioni sono provenute (e provengono) da diverse fonti: fotografie e fotografi, romanzi, cartine geografiche e viaggi, film ed epiche partite di calcio, mercatini dell’usato e semplici letture di libri.

In che modo allenate e raffinate il vostro processo creativo?
Il vostro progetto è a impatto zero. Soprattutto in questo momento storico, può la creatività non tenere conto della cura dell’ambiente?

Il segreto potrebbe essere nella sperimentazione! Nel “lasciarsi andare”, senza sottostare troppo alle regole; perlomeno, conoscerle, e un po’ fregarsene. Per fare un esempio in breve, più legato (appunto) agli esperimenti tipografici che stiam facendo ultimamente: lavorando con 5x Letterpress ci siam messi a stampare matrici di vario tipo (non solo caratteri classici di legno e piombo o matrici di linoleum), bensì superfici di plexiglass, pezzi di pavimento, pluriball e robe simili da cui son venute fuori cose molto interessanti!

Se avessimo proposto una cosa così a una tipografia “classica” ci avrebbero riso in faccia -  eheh.

 

Per quanto riguarda il progetto LFC, l’impatto è zero, esatto, o per lo meno, l'idea è quella!

Onestamente, niente al mondo d'oggi è a impatto zero, perché, se ci pensi, anche il solo fatto di prendere la macchina per andare a recuperare la carta ha un impatto; "fortunatamente", LFC è arrivato prima delle mode "upcycling", "economia circolare", "green economy" - che per carità, ben venga! Ma molte volte sembra solo un aspetto di facciata - e quindi è nato, come dicevamo all'inizio, per una vera e propria filosofia, un’idea e stile di vita a cui stare attenti!

 

Dunque, per rispondere in modo definitivo: sì, al giorno d'oggi per forza deve tenere conto dell'impatto ambientale.

 

Perlomeno, appunto, sarebbe bello se chi progetta e propone le cose, non lo facesse solo per vendere, ma credesse sul serio a quello che fa.

La vostra uscita urbex e il "bottino" più entusiasmanti.

Ce ne sarebbero un po' da raccontare! Dunque, uno dei bottini più esaltanti è stato il ritrovamento di una serie di libri di chimica/tessuti/macchinari tessili (una sorta di piccola "biblioteca") all'interno di una fabbrica abbandonata nel nord Italia: un tesoro incredibile!

Qui c'è un resoconto di quell'esplorazione.

Libri-Finti-Clandestini-5X-Letterpress-esplorazione-urbex
5X-Letterpress-bandiera-esplorazione-urbex

Quali sono i vostri progetti in corso? Potete spoilerarci qualche idea futura (collaborazioni, nuove declinazioni di LFC...)?

Sì, per la mente ci frullano spesso varie idee contemporaneamente: una a cui stiam lavorando da qualche mese e che ha già dato vita ad alcune cose è una collaborazione con "DEM" e 5X Letterpress: insieme abbiamo stampato a mano vari tessuti con il nostro tirabozze sfruttando matrici di vario tipo (plexiglass, matrici di linoleum intagliate da Dem, mdf, caratteri di legno e altro); da questi nasceranno magliette -  pezzi unici - molto matte e colorate e (sono già nate) delle maschere particolari, cucite a mano dallo stesso Dem durante una sua residenza a Centrale Fies di inizio febbraio.

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Un altro progetto che invece avrà bisogno di più tempo, a cui però stiam già lavorando insieme agli amici di 5X Letterpress e Spazienne, è un progetto che si basa sulla parola tedesca Ruinenlust (cioè il sentimento che si prova di fronte a luoghi diroccati e antiche rovine, vestigia del passato che ci ricordano l’inesorabile e malinconico scorrere del tempo), dedicato alle esplorazioni di spazi abbandonati in cerca di materiale da riutilizzare (quindi in linea con tutta la nostra filosofia del riuso) per questo vorremmo creare una piccola edizione in tiratura limitata di alcuni libri che descrivono bene questa nostra ricerca e fanno capire lo spirito che c'è dietro.

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Intervista a cura di Davide Armento

Maggio -Il femminismo tradotto

Intervista a
Il femminismo tradotto

Femminismo intersezionale

senza confini

con

Valentina Pesci

Clarice Santucci

Erica Francia

Il-femminismo-tradotto-intervista

Tre amiche, i loro studi, i loro interessi, le loro esperienze, mischiati al desiderio di farne qualcosa; poi, il lockdown.

Un progetto di traduzione di articoli scelti da riviste internazionali seguendo il filo conduttore dei diritti delle donne, di tutte le donne. La volontà di integrare nella propria cultura di riferimento – che è specifica: occidentale e italiana – prospettive altre, forse spaesanti, ma necessarie per conquistarsi strumenti più fini e confrontarsi con la complessità di quel che accade nel nostro contemporaneo.

Lavorare per rendere “le voci degli altri” disponibili anche in lingua italiana e parte anche dei nostri discorsi, dimostrando che l’una non esclude l’altra, anzi, che quando il confine si sfuma si genera spazio.

Una dimostrazione del fatto che creatività significa prendere quello che si ha, le proprie idee, le proprie energie, e farne qualcosa, metterle in campo e trovare le parole per costruire e aggiungere quel pezzetto di realtà in cui si crede.

Quali sono i vostri riferimenti personali? Ovvero quelle figure della Storia (anche contemporanea) che hanno segnato tappe importanti della vostra consapevolezza e l’hanno ben nutrita – e che, più o meno direttamente, potreste riconoscere come ispirazioni anche per il vostro progetto.

E: Non sono sicura che ci siano state delle vere e proprie figure che mi hanno formata. Mi sono avvicinata al femminismo più a causa di vissuto e di esperienze personali che mi hanno costretta a riflettere su determinati temi e non tanto grazie ai testi, infatti è stato più seguire le attiviste e i collettivi che mi è stato d’aiuto. Nonostante ciò ci sono state scrittrici e musiciste che con le loro opere mi hanno toccata e che sono state importanti per la mia crescita: Charlotte Perkins Gilman col suo racconto La carta da parati gialla, Kate Chopin con Il Risveglio e Patti Smith quando in un concerto che sembrava più un rito sacro, parlava di come tutte le persone siano connesse e iniziava a cantare People Have The Power.

V: Come molte cose nella mia vita, credo di aver capito che certe problematiche che avevo riscontrato nella vita di tutti i giorni come donna fossero condivise anche da altre attraverso i romanzi, grazie a scrittrici come Janet Winterson, Toni Morrison e Angela Carter. A una vera letteratura critica sul femminismo mi sono avvicinata più avanti, in particolare durante la tesi magistrale con i testi di Donna Haraway. Non mi ripeterò rispetto alle mie colleghe, ma ci tengo a menzionare Non Una di Meno e le tante persone che si impegnano nel diffondere consapevolezza su queste tematiche. Ci sono davvero tanti esempi da cui trarre ispirazione, questo mi dà speranza e motivazione.

C: Il mio primo incontro con il femminismo è avvenuto attraverso Memorie di una ragazza perbene di Simone De Beauvoir. La mia professoressa di francese del liceo mi accennò all’opera della filosofa e anni dopo, in un momento particolare e doloroso della mia vita, sentii la necessità di cercare punti di riferimento e risposte a domande che si facevano sempre più pressanti. Oggi guardo alle donne che ci mettono la faccia negli ambiti più disparati: da Vera Gheno ad Alexandra Ocasio Cortez, fino alla mia coetanea Espérance Hakuzwimana Ripanti.

Raccontateci com’è nato questo progetto: quando, come, dove, perché. Vi ricordate il momento esatto in cui è arrivata l’idea o quello in cui avete capito che stavate parlando di qualcosa che stava già da sola acquisendo corposità e una certa forma di realtà?

E: Durante il primo lockdown ho iniziato a sentire una certa smania. Leggevo spesso articoli in inglese sul femminismo, in particolare quello intersezionale, mentre facevo un po’ più fatica a trovare testi simili in italiano. Era da un po’ di tempo che pensavo di voler fare un progetto di traduzione, così ho pensato che poteva essere una buona idea cercare di trasportare in italiano degli articoli che parlavano di femminismo intersezionale. Mi sono venute in mente subito Clarice e Valentina perché sapevo che entrambe erano brave traduttrici e che eravamo sulla stessa linea di pensiero grossomodo, quindi le ho contattate e da lì è iniziato tutto. Credo però che i momenti in cui io ho capito che stava tutto accadendo davvero siano stati due: uno quando ci siamo trovate per scrivere insieme il testo della mail in cui chiedevamo il permesso alle riviste che ci interessavano di poter tradurre i loro articoli, l’altro quando abbiamo messo online il sito. In quell’occasione c’è stata un’esplosione di gioia.

V: Personalmente sentivo la necessità di fare qualcosa da tempo, ma non ho mai avuto la spinta o il coraggio di metterla in atto. Poi, Erica, che avevo conosciuto durante un viaggio in macchina per andare a un corso di traduzione, mi ha proposto questo meraviglioso progetto, al quale mi disse avrebbe partecipato anche Clarice, anche lei conosciuta a un corso di traduzione. Dai discorsi fatti con Erica sapevo che saremmo state d’accordo sulle tematiche da affrontare, perciò non ho avuto esitazioni nell’accettare la proposta.

C: L’ideatrice del progetto è Erica, di cui sono amica dal primo anno di università. L’interesse per il femminismo ci accomuna da sempre e quando mi ha proposto di creare il blog insieme a Valentina, non ho potuto che accettare. È stato un mondo per dar voce a un bisogno di fare attivismo che mi portavo dentro da tempo. Abbiamo iniziato a lavorarci intorno a ottobre 2020, complice la quantità di tempo a disposizione per il lockdown e la necessità di dedicarsi a qualcosa di bello.

il femminismo tradotto Erica-web.jpg

Cos’è per voi, personalmente, la traduzione, che cosa vi fa innamorare dell’atto del tradurre? In sostanza, perché lo fate e com’è iniziata questa passione - lavoro.

E: Quando ero piccola mi piaceva molto colorare coi pastelli a cera. Non ero brava e combinavo dei gran casini, però era un’attività che riusciva sempre ad assorbirmi completamente e felicemente. Per la traduzione è un po’ la stessa cosa: lo faccio perché amo giocare con le parole ed è un’attività che sebbene costi fatica è un tipo di fatica gioiosa e soddisfacente. Per me tradurre significa svuotarsi, dimenticarsi e lasciare che la voce di qualcun altro diventi la tua. Non riesci più a capire dove inizi tu e dove inizia l’Altro. Lo trovo meraviglioso.

V: Quello che mi affascina della traduzione, oltre al poter combinare la mia passione per la scrittura e le lingue, è che si tratta di una costante scoperta. Tradurre un testo è sempre un’avventura, non è mai uguale, non è statico.

C: La traduzione è sempre stata un qualcosa di molto naturale nella mia vita: sono mezza polacca da parte di madre, che era a sua volta una traduttrice e appassionata di lingue, mentre mio padre ha vissuto molti anni negli USA, e ha mantenuto i legami con quella terra e con le persone che ha conosciuto. Posso dire che sin da piccola mi sono ritrovata in un ambiente multilingue e multiculturale, in cui la traduzione era presente come necessità in tantissime forme.

In che modo sentite la vostra voce mentre date voce a qualcun altro? (Come) Si conciliano le due cose? Raccontateci com’è da vicino, per voi che la vivete, la creatività dello scegliere le parole giuste (o le migliori possibili) affinché non solo riportino correttamente il senso, ma rispecchino il pensiero di chi sta parlando e anche in un certo senso sappiano ricreare un’atmosfera, la totalità di quello che cerca di comunicare la persona che state traducendo.

E: Alcuni studiosi hanno sostenuto che tradurre sia un atto impossibile. Spesso in Italia si sente la frase “tradurre è tradire”, io credo invece che si possa dar voce senza tradire quella stessa voce. Certo, tradurre non è mai un atto neutro. Non lo è nella scelta dei testi che vengono tradotti e non lo è nell’atto stesso della traduzione, tant’è che per descrivere l’atto del tradurre spesso si è ricorsi a metafore che rieccheggiano la guerra, come se il testo andasse conquistato, vinto da chi traduce. Credo che questo tipo di approccio sia rischioso, io cerco sempre di tenere presente la voce autoriale e quella del testo e conciliarle, per quanto possibile, con le esigenze del lettore italiano. La traduzione perfetta, la traduzione definitiva non esiste: si devono compiere sempre delle scelte.

V: Il traduttore dovrebbe essere essenzialmente invisibile, tuttavia credo che la sua voce si senta in ciò che sceglie di tradurre (quando si ha la possibilità di farlo) e proprio nella cura che mette nella scelta di usare una parola piuttosto che un'altra per trasportare al meglio il messaggio. E la scelta della parola giusta è il risultato di una costante ricerca volta a riportare l’atmosfera del testo di partenza, senza rendere difficoltosa la lettura per il pubblico d’arrivo. È uno studio attento, ma poi alla fine per me è più che altro una questione di sensazioni.

C: Scegliere le parole con cura è una buona pratica e non andrebbe messa in atto solo quando si traduce. Io faccio tanta ricerca su quello che traduco proprio per essere il più fedele possibile al significato del testo di partenza e allo stesso tempo provo ad adattare tantissimo il testo di arrivo per farlo risultare più scorrevole e consueto agli occhi dei nostri lettori e delle nostre lettrici. È un dissidio testuale arduo, le due colleghe a cui tocca revisionarmi ne sanno qualcosa!

il femminismo-tradotto-Valentina-Pesci

A proposito del tema che avete scelto per voi (è corretto dire “come vostra battaglia”?): femminismo intersezionale. Cosa significa e perché l’avete scelto? Quali sono gli obiettivi del vostro progetto? Quali i vostri riferimenti culturali contemporanei?

E: Direi che battaglia è abbastanza accurato come termine. Quando si parla di femminismo spesso le persone non capiscono che non si sta parlando semplicemente di pari opportunità ma di un vero e proprio movimento politico-filosofico che dura da secoli e con diverse correnti al suo interno. Il concetto di intersezionalità è stato coniato da Kimberlé Crenshaw, una giurista e attivista afroamericana, nel 1989. Spesso il femminismo non si è occupato dei problemi di tutte le donne ma solo dei problemi delle donne bianche, intersezionalità significa riconoscere non solo la discriminazione che avviene sulla base del genere ma anche quella di razza, di orientamento sessuale, di classe. Il femminismo per me è un movimento politico e filosofico che trova il suo senso nel momento in cui si oppone a una visione piramidale della società, il femminismo intersezionale ci dice che non ha senso lottare per i diritti di alcune donne (vedi: donne bianche, cisgender e borghesi), ma bisogna lottare per i diritti di tutte le donne, nessuna esclusa. Quindi non ha senso di esistere un femminismo che non sia antirazzista, che non sia anticapitalista e che non sfidi il controllo patriarcale esercitato sui corpi, sulle identità di genere e sulla sfera sessuale.

V: Aver scelto di parlare di femminismo intersezionale viene dalla convinzione che se si vuole lottare per i diritti, si deve lottare per i diritti di tutti. Non possono esserci pari diritti se si esclude qualcuno. Viviamo in un’epoca estremamente affascinante in cui abbiamo la possibilità di scoprire esperienze lontane dalla nostra solo accendendo il telefono, e tuttavia c’è ancora molta paura di fronte a ciò che è visto come diverso e si cerca di relegarlo ai margini. Usare la nostra piattaforma per dare voce a chi non sempre viene ascoltato, avvicinando anche ciò che sembra lontano, è il nostro obiettivo principale.

C: Essere femministe intersezionali significa abbracciare la complessità della nostra società, in cui le categorie discriminatorie si sovrappongono l’una con l’altra. Per fare un esempio pratico, la mia esperienza di donna bianca è sicuramente diversa e in linea di massima più semplice rispetto a quella di una donna di colore o asiatica, e riconoscerlo è il primo passo per cambiare le cose. Ti ringrazio per aver usato la parola “battaglia”, nel nostro piccolo credo che lo sia. I nostri obiettivi principali sono rendere fruibili al pubblico italiano dei contenuti spesso complessi e non di facile interpretazione e dar spazio a tematiche che faticano a trovarne nel nostro Paese, per questioni anche di natura culturale.

La vostra esperienza riguardo questa modalità di lavoro: tra pari (e tra amiche), auto-prodotta e auto-gestita, auto-finanziata. Come la vivete? Avete supporto dalla vostra rete personale? Come si concilia con tutto il resto delle vostre vite? Come vigilate sulla sua sostenibilità?

E: Poter confrontarmi con persone che considero mie amiche per me è molto stimolante e fonte di grande gioia. L’ambiente è molto rilassato e forse proprio per questo molto stimolante, non ci giudichiamo tra di noi e cerchiamo sempre di trovarci a metà strada. Sono molto grata di aver trovato delle persone con cui è bello lavorare e confrontarsi, non so cosa avrei combinato senza di loro. La mia rete personale mi sostiene e si è sempre mostrata molto interessata al progetto, quindi non posso lamentarmi! (Qualcuna ci fa pure le interviste!)

V: Lavorare insieme, in un ambiente rilassato e aperto a discutere nuove idee, è stimolante e formativo. Sto imparando molto dal modo di lavorare e dalle traduzioni di Erica e Clarice, e non meno importante dai loro consigli al momento della revisione degli articoli che ho tradotto. Le persone con cui ho parlato del progetto mi hanno dato tanti riscontri positivi e le persone a me più vicine mi sostengono.

C: Il nostro è un ambiente estremamente rilassato e tranquillo, e siamo riuscite ad organizzarci in maniera che resti tale. Faccio cose che amo e non mi pesa, anzi, colgo sempre l'occasione per imparare qualcosa di nuovo. La mia rete personale mi sostiene tantissimo, segue con tanto entusiasmo il progetto e mi riempie di feedback interessantissimi sugli articoli.

il-femminismo-tradotto-Clarice-Santucci

Stato attuale del progetto: come sta andando? State incontrando delle resistenze? Come sta evolvendo, si sono aperte prospettive?

E: Il progetto sta andando molto meglio di quel che avevo preventivato. Abbiamo ricevuto diverse autocandidature, cosa che non ci aspettavamo. Persone che hanno visto il sito e si sono proposte per tradurre o per tenere delle rubriche, attualmente sono tutte al vaglio ma c’è molto che bolle in pentola!

V: Penso che stia andando piuttosto bene. Questo è davvero motivante, oltre alle rubriche già avviate o che stanno per partire, speriamo di poter avere la possibilità di partire con altri progetti nel prossimo futuro.

C: Il progetto procede molto bene, tant’è che abbiamo iniziato una piccola rubrica di recensioni cinematografiche che si chiama Femflix e a breve faremo lo stesso con i libri. Abbiamo ricevuto tante richieste di collaborazione e stiamo valutando di iniziare a tradurre anche da altre lingue.

Cosa è accaduto che non vi sareste mai aspettate e cosa sperate accada.

E: Non mi aspettavo di ricevere così tanto sostegno e interesse, sia dalla mia rete personale sia invece dal mondo esterno. Abbiamo davvero ricevuto una risposta sorprendente calcolando i nostri mezzi molto limitati, per certi versi è stato scioccante! Sempre più persone ci seguono, questo ci fa molto piacere e nessuna di noi se lo aspettava! Spero che le cose continuino a progredire e di poter raggiungere sempre più persone.

V: La risposta di chi ha cominciato a seguirci è stata di certo sorprendente, ma quello che ancora agli inizi del progetto mi ha colpito è stata la risposta positiva di molte delle riviste straniere contattate, soprattutto quelle che ci hanno dato fiducia prima ancora che andassimo online, quindi non avevano nessun modo per valutare la nostra effettiva serietà. La speranza è quella di poter raggiungere sempre più persone e sicuramente quella di rendere la traduzione un lavoro a tutti gli effetti.

C: L’entusiasmo e il supporto con il quale il progetto è stato accolto sono stati sorprendenti e ci spingono a fare sempre di più e meglio; personalmente sono davvero felice di ricevere i complimenti da tante colleghe. Spero che un giorno quello che facciamo possa trasformarsi da passione in lavoro.

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Consigli per tutti coloro che hanno idee potenti ma tentennano.

E: Iniziare. Buttatevi. Smettete di pensare e fate qualcosa. Qualsiasi cosa. Si pensa sempre di non essere abbastanza bravi, abbastanza intelligenti, insomma di non essere abbastanza. Provate a fare: vi accorgerete che siete molto più di non abbastanza.

V: È banale, ma provarci. Non dico che non ci saranno delle battute d’arresto o delle delusioni nel proprio percorso, le abbiamo tutti. Non dirò nemmeno che sono quelle a farvi crescere, perché siamo onesti, crescita o meno, tutti ci risparmieremmo quelle sensazioni. Però, senza provarci ci perderemmo anche le cose positive e le persone fantastiche che potrebbero sostenerci e accompagnarci nel viaggio, e quelle valgono davvero un tentativo.

C: Ascoltarsi e non avere paura, o almeno, non troppa.

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Intervista a cura di Arianna Migliari

Giugno - Avanterra

Intervista ad
Avanterra

Un collettivo in streaming

con

Leonardo Petrini

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Qualche mese fa ho scoperto un progetto pilotato da giovani creativi, senza una sede fisica, operanti solo sulla rete, eppure straordinariamente concreti nel portare avanti le proprie idee. 

 

Ho scoperto Avanterra.

 

Avanterra nasce da un gruppo di sette ragazzi residenti in varie zone d’Italia, con differenti abilità e competenze, che del gioco di ruolo hanno fatto un’idea progettuale, da perseguire con tenacia, grinta e soprattutto passione. In modo costante e strutturato si occupano di sincronizzate attività atte all’organizzazione, operatività e promozione del Progetto e lo fanno in maniera del tutto autofinanziata con video educativi su Youtube, e attraverso sessioni di “actual play” live su Twitch.

 

Per questi giovani giocatori interpretare un ruolo, creare scenari e simulare storie non è solo un atto ricreativo e d’intrattenimento…E’ dare cornice ad un’evasione virtuosa, che possa stimolare l’immaginazione, il confronto, la capacità di tessere nuovi legami, in cui i protagonisti scelgono di vestire abiti immaginari, d’ogni epoca e cultura, mescolando la loro reale identità con esistenze di variegate fattezze, dando vita ad un momento performativo fatto di tempi da rispettare, ruoli da perseguire, usi e costumi da conoscere e da mettere in scena con rigore, cura del dettaglio e vivacità; perché i ragazzi di Avanterra non giocano da soli, chiusi in una stanza, ma si esibiscono con coraggio e serietà attraverso vere e proprie drammatizzazioni virtuali, si prendono la responsabilità di raccontare qualcosa in modo strutturato, accattivante, che possa divertire, certo, ma anche far riflettere: i personaggi interpretati sorridono, soffrono, spaventano… E la rappresentazione simbolica delle emozioni, come nel Teatro, permette di comprendere meglio se stessi, creando un’interazione tra spettatore e giocatore dal sapore evanescente, eppure incredibilmente intenso. 

 

Di Avanterra ho parlato a lungo con Leonardo, realizzando assieme un’intervista che non solo permettesse di far conoscere il loro Progetto, ma soprattutto potesse rappresentare l’occasione per far riflettere sulle potenzialità del “gioco”, il cui valore non è solo legato al bambino, come spesso si sente dire in diversi ambiti (pedagogici e non), ma che, intramontabile, investe ogni età e contesto, epoca e cultura, perché, se frutto di menti fervide e brillanti, è sempre uno speciale ponte per migliorarsi. 

I canali di Avanterra

Instagram

Youtube

Twitch

estratti intervista

[...] il gioco di ruolo è un gioco in cui al centro c'è l'immaginazione, la fantasia e l'interpretazione di una persona, di un personaggio diverso dal nostro…Quindi è un gioco molto particolare [...]

[...] Avanterra è riuscire ad aiutare le persone che ci guardano ma anche noi stessi nell’ immaginare ed avere una creatività quanto più sviluppata possibile… Infatti giocare insieme, anche con chi ci segue, è un elemento fondamentale del poter condividere una storia che è intima per noi e per chi ci segue [...]

Avanterra-screenshot-online-gaming

[...] A differenza di un progetto dove io faccio streaming di un videogioco, qui c'è proprio la preparazione di un'avventura, quindi c'è anche tutto un comparto un pò più creativo fatto del dover leggere un'avventura, studiare il mondo in cui si va ad incastrare l'avventura; è importante che ci sia una coerenza in quello che si porta “…” Ci sono competenze più creative, poi ci sono quelle tecniche e anche poi di marketing: come rendi fruibile il contenuto… come vieni reso noto al pubblico [...]

[...] In generale, ci sono state tante pubblicazioni negli ultimi anni che portano il gioco di ruolo come strumento educativo, proprio perché basato sulla creatività, sull’immaginazione, che oggi tanto manca…in realtà è vero siamo molto visivi, abituati al tutto e subito e le nuove generazioni ancora di più, quindi sicuramente risponde all'esigenza anche di avvicinare (i più giovani soprattutto ma anche noi, cioè io stesso alla fine ho 27 anni, e quindi vengo dalla generazione che ha iniziato col computer) maggiormente alla creatività, alle emozioni, al sapersi un po' leggere dentro…Perché comunque giocare di ruolo ti porta davanti a situazioni anche molto drammatiche che magari non è quello vivi tutti i giorni nella tua vita reale “…” e poi si è in un gruppo e, soprattutto in ottica pandemica, siamo portati ad essere soli in questa vita ed invece nel gioco di ruolo tu crei la narrazione con altre persone e quindi impari anche a stare in gruppo, ad essere empatico … 

Noi di Avanterra lo definiamo un gioco intelligente…

L’esperienza ludica insegna non insegnando [...]

Scopri di più su Avanterra

Intervista a cura di Claire Becchimanzi

Avanterra-online-gioco-di-gruppo
Novembre - Luca Gianotti

Intervista a
Luca Gianotti

Camminare come prassi, come rito, come espressione artistica. Come atto politico in controtendenza.

Intervista a cura di Luca Delmonte

Luca-Gianotti-camminatore-scrittore-fondatore-compagnia-dei-cammini

Dal 1993 è una guida di viaggi a piedi, è fondatore della Compagnia dei Cammini e ha all'attivo spedizioni scialpinistiche che lo hanno portato in giro per il mondo, dall'Islanda al Kirghizistan. Ha attraversato il Sahara algerino in mountain bike. Con "L'arte del camminare", che è anche un libro la cui prefazione porta la firma di Wu Ming 2, Luca Gianotti da decenni esplora questa pratica antica comune a tutti i popoli, minacciata dalla pigrizia e dal modello di società occidentale. Una pratica che è arte, atto politico e rito collettivo. 

Chi è Luca Gianotti?

Mi sento un idealista, nel senso che ho fatto una scommessa con me stesso, la scommessa di dedicare la mia vita e il mio lavoro alla mia passione, questa è la scelta portante della mia vita.
 

Ho iniziato a camminare da ragazzo e ne ho sentito tutti i benefici su di me. Ho sentito su di me tutta a forza e la potenza del camminare.
 

Da dipendente pubblico nel comune di Scandiano ho deciso di buttarmi in un mondo nuovo un po’ sognatore ma anche in un progetto concreto.
 

Quindi credo di essere una persona che è riuscita a fare della sua passione il suo lavoro, Credo sia una grande fortuna che auguro a tutti, perché comunque è una bella scelta di vita non lavorare per finire le ore ma per immergersi in un progetto.
 

In pratica ho lavorato in comune a Scandiano per 6 anni, in biblioteca alle attività culturali. All’inizio fu molto bello, poi alcune cose cambiarono in peggio a mio avviso, ma era già nelle mie corde fare anche altro, infatti sono poi diventato consulente per enti pubblici per molti anni.
 

Ho lavorato anche per un parco naturale in Abruzzo, lavoravo per la comunicazione.

Ma ad un certo punto proprio ho capito che non c'era nulla da fare, anche se era interessante lavorare in un parco nazionale, lavorare per difendere la natura, alla fine in queste situazioni istituzionali gli interessi privati diventano dominanti rispetto agli obiettivi di difesa della natura e tutela del patrimonio naturale, diciamo valori più alti del semplice profitto, quindi ho cercato la mia nicchia fuori che più si avvicinasse a quel che sono.

Questo è ciò che mi è successo negli ultimi 30 anni.

Questa prima risposta un po’ mi commuove, perché l’intervistatore qui presente è di Scandiano. Non sapevo assolutamente di questa simpatica coincidenza.

Capisco anche il difficile rapporto o quasi impossibile con le istituzioni, ma questo andrebbe ad aprire un altro grande capitolo.

Passiamo alla seconda domanda. Compagnia dei Cammini: di cosa si occupa e in che modo?

La Compagnia dei Cammini organizza cammini di gruppo, nasce in seguito al mio primo progetto nato in provincia di Reggio Emilia, l’associazione La Boscaglia, che aveva delle finalità simili.
 

Ci fu poi un'evoluzione, anche storica e culturale, si passò dal trekking al cammino, cambiando quindi l’approccio al camminare.

C’è stato un cambiamento storico, possiamo dire da quando è arrivato il cammino di Santiago negli anni '80 e '90.

In quel periodo c'è stata un'evoluzione per cui se prima il cammino era quello di ricerca dei luoghi più incontaminati, più selvaggi, più belli da punto di vista paesaggistico, adesso invece si scoprono anche le realtà attuali o i paesaggi più tradizionali; andare anche giù nelle valli, attraversare paesi,  andare in città, passare da un centro abitato, da una periferia urbana o da una discarica - perché no! - fa parte di un percorso di approfondimento.

I viaggi nella Compagnia dei Cammini hanno poi un tema che lo caratterizza, questo rende il cammino più ricco ed interessante perché la tematica può incuriosire e stimola una riflessione sul cammino, può essere qualsiasi cosa, che però ti fa entrare maggiormente nella storia di quel luogo del cammino.
 

Queste evoluzioni hanno fatto sì che noi diventassimo Compagnia dei Cammini.

Siamo 26 guide ambientali, organizziamo circa 150 viaggi all'anno, facciamo tutto in piccoli gruppi di 14 persone al massimo, con un approccio da artigiani, ci piace l'idea di fare le cose con cura e quindi di far vivere alle persone un viaggio attento a tutti i dettagli e particolari curando ogni specificità della guida e del territorio.

Cerchiamo di far vivere un’esperienza vera, andare al di là del concetto di vacanza che è un vuoto un passatempo; invece no, cercchiamo di conoscere il mondo in maniera approfondita e questo i cammini te lo consentono, ma ti consentono anche di guardarsi un po' dentro, di lavorare su se stessi, mettendosi in discussione. Facendosi spaesare nel gruppo, per potersi poi ricostruire nella comunità che il gruppo forma. Le dinamiche di gruppo sono uno degli aspetti a cui teniamo molto.

Da questo punto di vista, siamo un po’ particolari, siamo più selettivi e ci piace che i gruppi siano di qualità, quindi preferiamo essere in pochi, ma puntare molto sulla qualità del gruppo.

Hai parlato del lavoro sulle dinamiche di un gruppo, di chi cammina, che sono molto particolari, Mentre preparavo la tua intervista ho segnato suggli appunti la frase "camminare per trasformarsi e per trasformare il mondo”. Si fa anche questo durante i cammini?

Sì, in un modo o nell’altro ci sono molte proposte che lavorano molto su questo aspetto della consapevolezza della ricerca interiore anche usando il cammino.

Ci sono poi dei percorsi all’interno della Compagnia dei Cammini che sono i "cammini di pace" che vedono alcune guide fare delle proposte di cammino che contengono un aspetto di interiorità forte, con momenti di yoga, di lettura, di meditazione.

In particolare, su questo tema posso parlarti del mio progetto di Deep walking, una proposta che ho costruito proprio per la mia inclinazione di camminatore curioso.
 

Sono partito dagli sciamani toltechi, leggendo Carlos Castaneda e i suoi allievi, mi interessava come questi sciamani usavano il camminare come forma trascendentale, per aprirsi a nuovi stati di coscienza, come con la ricerca attraverso il funghetto allucinogeno.
 

Con il cammino entrano in trance, in mantra.
 

Ci sono 42 esercizi diversi e studiati su quello che sono le pratiche sciamaniche, quindi cominciando a provarle su di me, per poi scoprire, continuando il mio viaggio di ricerca, un meraviglioso percorso, quello di Thich Nha Hanh, un maestro zen vietnamita.

Un grande maestro ancora vivo, sono stato per mia fortuna per anni un suo allievo e questo mi ha veramente cambiato la vita.
 

Lui ha messo al centro della pratica Zen di meditazione il camminare, l'ha fatto anche perché non è più potuto rientrare in Vietnam per 50 anni, era il capo spirituale del buddhismo vietnamita ma durante la guerra in Vietnam ha fatto un viaggio negli Stati Uniti e non ha più fatto rientro in Vietnam.

 

Quindi ha deciso di rimanere in Europa, in Francia, ha aperto poi negli anni tanti centri di pratica in tutta Europa, ha tantissimi allievi e proprio per parlare agli occidentali ha messo al centro il camminare, credo che questo aspetto del camminare sicuramente gli appartiene come persona e ci sono anche forme di buddhismo che contemplano il camminare, ma viene messo un po' in minor rilievo rispetto alle pratiche di meditazione seduta.

 

Queste pratiche di meditazione camminata con lui acquistano una nuova importanza e sono adatte a noi occidentali che siamo irrequieti mentalmente, non riusciamo ad avere la mente ferma nel qui e ora, nel presente, pensiamo sempre a cosa ci sarà fra poco “Quando arrivo mi bevo una birra”, oppure al passato, “quale viaggio hai fatto?” “io ho già fatto Santiago, la Francigena...”. Ci fissiamo sul raccontarci il passato e pensare al futuro, stare nel presente è difficile, Ecco, l'obiettivo del deep walking  è restare nel presente, lavorando con consapevolezza sui nostri processi. Restare nel presente è l'unica opportunità che hai per combattere le ansie e le preoccupazioni.

Tu sei lì a pensare cosa succederà, o cosa ti è successo nel passato e quindi vivi comunque in disarmonia, invece se riesci a stare nel presente ti godi la bellezza dell’attimo, cammini e ritrovi la tua armonia.

Il cammino in questa situazione è perfetto perché tu stai vivendo, passo dopo passo, nel tuo cammino e godi di questo.

Ti faccio una citazione di e Thich Nha Hanh dal suo libro Essere pace:

La vita quotidiana è organizzata in modo tale che ci sentiamo spinti a muoverci continuamente. Dobbiamo sbrigarci. Ma di rado ci chiediamo dove stiamo correndo.
Nella meditazione camminata, in pratica state andando a spasso. Non avete nessuna meta e nessuna direzione, né nel tempo né nello spazio. Lo scopo della meditazione camminata è di fare meditazione camminata. L'importante è camminare, non arrivare. Non si tratta assolutamente di un mezzo per raggiungere una meta: è già la meta. Ogni passo è vita, ogni passo è pace e gioia. Quindi non c'è nessuna fretta. Camminiamo adagio apposta. Sembra che procediamo, ma non stiamo andando da nessuna parte. Non siamo incalzati da nessuna meta.
Per questo, camminando, sorridiamo.

Questo pezzo per me è molto bello ed è quello che attraverso gli esercizi specifici che mi ripeto. Gli esercizi sono presi sia dagli sciamani toltechi che dal buddhismo, e insieme formano lo stile di alcuni viaggi.

Come il viaggio a Creta, mio luogo di elezione, il luogo che amo di più, io faccio sempre fare questi esercizi per aumentare quei momenti di introspezione e di consapevolezza, quel benessere che comunque già c'è in qualsiasi cammino.

 

L'importante è che si possa vivere il cammino con una certa serenità, vivere il tuo qui e ora, perché se uno invece sta facendo un cammino e non vede l'ora di arrivare, non ha capito il senso del cammino, chi invece entra nella logica del ”non voglio arrivare", rallenta e se può va oltre la meta di arrivo, Diventa una bolla dorata, dalla quale è difficile uscire, anche se poi bisogna anche saper tornare alla vita normale.

Si può però tornare nel mondo ma rimanere un profondo camminatore, un deep walker.

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Citando il tuo libro “L'arte del camminare” - io mi occupo di arte - vorrei provare a mescolare il cammino con l'arte, quindi la mia domanda è camminare è una forma d'arte? E che cosa serve per fare in modo che lo sia?

Inizio con due citazioni di due filosofi. Vorrei partire dal concetto di creatività che sta alla base dell’arte vera e propria. Il primo è Friedrich Nietzsche: “Il sedere di pietra è il vero peccato contro lo spirito santo, soltanto i pensieri nati camminando hanno valore.”

Inizio con due citazioni di due filosofi. Vorrei partire dal concetto di creatività che sta alla base dell’arte vera e propria. Il primo è Friedrich Nietzsche: “Il sedere di pietra è il vero peccato contro lo spirito santo, soltanto i pensieri nati camminando hanno valore”. 

 

Jean-Jacques Rousseau gli risponde: "Non ho mai pensato tanto, vissuto tanto, sentito di esistere, non sono mai stato tanto me stesso nei miei viaggi a piedi e da solo".

Queste citazioni mi introducono al concetto che camminare è in primis un grande portatore di creatività, e in questo senso il beneficio è evidente a tutti.

Il cammino in sé è un concetto potente e i filosofi, nella storia della filosofia, lo hanno tutti riconosciuto.

Io, nel mio piccolo, ho provato questa esperienza in un’esperienza di cammino che poi è diventato un libro, “La spirale della memoria”.


Fu un esperimento di creatività in cammino, praticamente una camminata di 15 giorni in solitaria che divenne una specie di performance, partendo da casa mia e, dopo, chiudendo una doppia spirale della Marsica, in Abruzzo, che è la regione dove vivo; ho fatto prima la Marsica esterna per passare a pochi chilometri da casa mia e poi dopo chiudendo un secondo anello e finendo ad Avezzano, epicentro del terremoto che c'era stato esattamente cent’anni prima.

Il terremoto era solo un pretesto per vedere come si era evoluto il territorio negli ultimi cento anni, volevo lavorare sulla memoria del territorio. La domanda fondamentale, quella più importante quando si lavora sulla memoria, non è “com'è andato il passato?” ma “come può essere il futuro?”. 

Mi interessava capire se attraverso questo percorso la Marsica fosse un territorio che aveva qualche speranza di sopravvivere o se, invece, era un territorio destinato alla morte sociale.

Nel cammino ho incontrato eccellenze che mi hanno fatto capire le possibilità e le speranze di questo territorio.

Ma perché performance? Perché oltre al lavoro di ricerca storica, iniziata con i consigli di Wu Ming 2, quindi partita con il piede giusto, durante il cammino avevo una serie di riti e incontri. Durante il cammino ho incontrato 500 persone, tra cui realtà virtuose del territorio, anche per capire se io volevo continuare a stare in questo terra che aveva subito anche tante storie cominciando dai cento anni del terremoto, e quindi devo dire che queste quasi duecento pagine di libro sono la dimostrazione di come la creatività in cammino funzioni, io di libri scritti così bene non ne ho mai fatti.

 

Questo invece è stato scritto proprio durante il cammino, nei momenti di solitudine.

 

Il passaggio successivo è come la creatività diventa letteratura.

 

Come abbiamo detto con Friedrich Nietzsche lui non scriveva nulla seduto alla sedia: camminava ore ed ore al giorno ed aveva una persona che lo seguiva e che prendeva appunti. Non consideriamo poi che è diventato matto, quando camminava e scriveva era sano e diceva cose molto belle e profonde.

Anche nell’arte vera e propria il cammino è diventato o lo è sempre stato una forma d’arte.

Vi voglio raccontare qualche storia di come si può trasformare il cammino in una forma d’arte, e questo avviene quasi sempre nell'arte contemporanea, devo dire, e credo che il primo a trasformare il cammino in una forma d’arte sia stato Richard Long con la sua opera e performance del 1967, A Line Made by Walking.

Una performance che ha aperto le strade della land art, anche se era arte concettuale.

Lui inizia a camminare e camminare su un prato fino a tracciare delle linee e queste linee diventano la sua opera. Era uno scultore e per lui questa era una scultura.

 

Un altro famoso è Hamisch Fulton che ha fatto opere simili, si definisce un artista che cammina, dove le sue camminate diventano opere d’arte.

 

L’ultima e più famosa che voglio citare è Marina Abramovic. Un’opera che è rimasta nella storia del 1988, The Lovers, in cui sia lei che il suo compagno si mettono in cammino ai due poli opposti della Grande Muraglia cinese per trovarsi dopo tre mesi di cammino e 2000 km percorsi. Nel frattempo succede che lui si innamora di un’altra, per cui loro sanno che quando si incontreranno non sarà un incontro fra amanti ma sarà un incontro disperato in cui si lasciano e la loro vita si incammina in altre direzioni.

Questa credo che sia una grande performance in cui il camminare è presente.

 

Un altro modo di fare arte è appunto la land art che ognuno di noi può fare camminando.

La cosa più bella è che quando si cammina l’arte diventa un esercizio Zen: mettere i sassi in equilibrio sul greto di un torrente, fare strutture di pietra bilanciate, come il balance stone, una pratica che si usa anche in alcune forme religiose, ma che appare anche come una piccola forma d’arte. Evanescente, visto che dura il tempo di un colpo di vento, come i mandala sulla neve e sulla sabbia. Si tratta quindi di lasciare di natura nella natura, ma attraverso l’arte.

L'arte-del-camminare-libro-Luca-Gianotti-prefazione-Wu-Ming-2-consigli-per-partire-con-il-piede-giusto

Come camminare con ragazz* e bambin*?

La Compagnia dei Cammini ha al suo interno un progetto chiamato La Compagnia dei bambiniUn progetto molto importante dal punto di vista della nostra missione: fare qualcosa di buono per l'umanità.

Perché in fondo siamo anche qui per questo: cercare di fare qualcosa di buono per le future generazioni e quindi riavvicinare alla selvaticità i giovani facendo fare cose in natura che siano cose pratiche, come costruire un rifugio, accendere il fuoco, oppure cose semplici come costruire e giocare con sassi, rocce o bastoni, fare land art, ovvero fare arte rendersene conto.

Abbiamo accennato alle nuove generazioni. Mi interessava questo pensiero sull'idea del cammino come gesto politico, nel senso di come ci si approccia alla società e al mondo. Camminare è un gesto politico?

Il cammino è un atto politico, che ha insito l'idea di rallentare.

Siamo educati fin da piccoli a considerare la velocità come una cosa positiva. veniamo educati a ritmi frenetici che però non sono ritmi che ci permettono di vivere e stare bene.

Invece andare controcorrente e rivalorizzare la lentezza, e quindi andare a piedi invece che con i mezzi veloci, anche già andare a piedi invece che in bicicletta, andare a piedi invece che in treno, ci fa essere veramente un pesce fuor d'acqua rispetto alla visione più stereotipata e sociale in cui ci strumentalizzano.

Quindi in qualche modo diventi un ribelle, e il gesto rivoluzionario del camminare secondo me sta proprio in questo aspetto del rallentare, nel valore della lentezza. 

Quando si porta poi il valore della velocità nel camminare invece che il valore della lentezza, si perde il senso del cammino, se invece si va sempre più lenti vuol dire che se ne è colto il senso.

 

La lentezza ti induce a riflettere sul sistema in cui viviamo ed ecco che nasce una forma di ribellione al sistema che vive proprio intrinseca del camminare. 

 

I cammini guarda caso sono sempre stati forme di protesta, quando si protesta di solito si marcia; la marcia della pace, ad esempio.

 

I cammini sociali hanno una forza politica,mi viene in mente Antonio Moresco che con la Repubblica nomade per alcuni anni ha organizzato cammini sociali come messaggio per la politica italiana, muovendo tante persone e facendole riflettere

 

I cammini, quelli collettivi, e anche quelli individuali, per protestare per qualche problema.

Il cammino può aprire riflessioni. 

 

Persone che si fanno centinaia di chilometri e giorni di cammino, quindi, forse, ascoltarlo in qualche modo ha la sua valenza.

 

Quindi se il cammino mette in discussione il valore della velocità, inizia anche a mettere in discussione i valori di questa società consumistica.

 

I camminatori escono un po' fuori dalle righe, al cammino appartiene una forma di protesta politica generale. Noi camminatori vorremmo un mondo diverso, vorremmo un mondo più a misura d'uomo, più a misura di natura, combattiamo per un mondo migliore, e credo che questa sia anche la cosa bella del cammino.


Ti leggo una citazione dal mio libricino Parole in cammino che contiene 365 citazioni che servono come suggestioni nei cammini che proponiamo.

"Gli uomini camminano sempre meno, sono diventati sgraziati, si muovono curvi sui loro telefonini, hanno il collo storto per l’abuso del computer, le spalle rovinate dall’utilizzo del mouse, lo stomaco contratto dallo stress e la testa piena di segnali e rumori di fondo [...].
La nostra testa è cambiata. L’uomo che non cammina perde la fantasia, non sogna più, non canta più e non legge più, diventa piatto e sottomesso, e questo è esattamente ciò che il Potere vuole da lui per governarlo senza fatica, derubarlo di ciò che Dio gli ha dato gratuitamente e bombardarlo di cose perfettamente inutili a pagamento. Chi cammina, invece, capisce, parla con gli altri uomini, li aiuta a reagire e a indignarsi contro questa indecorosa rapina che ci sta impoverendo tutti quanti. Il semplice fatto di mettere un piede davanti all’altro con eleganza, di questi tempi, è un atto rivoluzionario, una dichiarazione di guerra contro la civiltà maledetta dello spreco”.

Questa citazione potentissima di Paolo Rumiz è tratta da A piedi (Feltrinelli Kids).
Si tratta di un messaggio importante per i nostri ragazzi,  magari facessero tesoro di queste riflessioni di Rumiz.

Questo è il concetto: il potere che ti vuole governare riempiendoti di cose perfettamente inutili a pagamento, mentre tu non puoi godere della bellezza del cammino che ti viene data gratuitamente.

 

Una storia che mi interessa molto sul cammino che si scontra con le questioni sociali e politiche di governo del territorio e quella della Allemansratt.

La situazione per cui sempre di più a noi camminatori viene tolto lo spazio, la proprietà privata toglie la possibilità di camminare, perché vengono privatizzate anche quelle che erano le vecchie vie di collegamento, e questo sotto l’occhio indulgente dei governatori che difficilmente riescono a cambiare la situazione.

 

Questo è un problema molto italiano, ad esempio nei paesi nordici come Scandinavia Scozia, nella Costituzione è stato introdotto in un tempo recente il concetto del diritto di ogni uomo di calpestare il terreno e quindi noi uomini secondo alcune costituzioni avremmo il diritto di camminare anche su proprietà private; in fondo, se non fai danni, se non fai furti, se non distruggi un coltivo, non fai niente di male passando su un territorio.

Se invece hai un fucile e sei un cacciatore puoi passare, puoi entrare nelle proprietà private non recintate, mentre dovrebbe essere il contrario, quindi c'è una battaglia che va fatta dai camminatori, per i diritti di ogni uomo, di calpestare il terreno.

 

Dobbiamo cambiare il concetto che abbiamo introiettato di proprietà privata.

Il concetto del diritto di ogni uomo a calpestare il suolo è molto potente, parlando di cammini non si può non parlare di migrazioni. L’idea di estendere il diritto di calpestare il suolo ovunque e da tutti è un po’ come dire abbattiamo le frontiere...

Infatti noi siamo molto sensibili ai camminatori migranti che passano la frontiera dei Balcani ad esempio, perché queste persone stanno camminando e hanno il diritto di spostarsi sulla terra, ci vedono solidali e contro i respingimenti .

Il cammino ti porta a solidarizzare con i più deboli, è insito nel camminatore, altrimenti non  si tratta di un camminatore.

Chiuderei con una citazione. Se dovessi scegliere una citazione che racchiude la tua visione del cammino, che cosa sceglieresti?

Scelgo un altro filosofo, Soren Kierkegaard: "Soprattutto, non perdere la voglia di camminare: io, camminando ogni giorno, raggiungo uno stato di benessere e mi lascio alle spalle ogni malanno; i pensieri migliori li ho avuti mentre camminavo, e non conosco pensiero così gravoso da non poter essere lasciato alle spalle con una camminata… ma stando fermi si arriva sempre più vicini a sentirsi malati… Perciò basta continuare a camminare, e andrà tutto bene".

Questa citazione mette in campo alcuni argomenti, intanto quello del sentirsi malati stando fermi. Ci ricorda che ci hanno bloccati durante il confinamento pandemico, non ci hanno consentito nemmeno di passeggiare da soli in mezzo alla natura, questo è stato un gesto molto discutibile. 
 

 La citazione riassume il concetto del cammino come un lavoro su di sé, che si riflette sugli altri.

Il camminare è un discorso collettivo. Camminare con gli altri, camminare come atto creativo che si riflette sugli altri con l’arte, camminare poi come gesto politico.

Il cammino riesce quindi ad abbracciare tutto questo, dall’individuo alla comunità.

Scopri di più su Luca Gianotti e sulla Compagnia dei Cammini.

Intervista a cura di Luca Delmonte

Intervista a
Valerio Carboni

Valerio Carboni

Cantante e musicista, autore e compositore, polistrumentista, arrangiatore e produttore musicale reggiano

Fotografie su gentile concessione di
© Valerio Carboni

Valerio Carboni presso il suo home studio

Il suo nome compare tra i credits di spot pubblicitari, musiche per spettacoli teatrali e singoli radiofonici del panorama pop e rock italiano.  
Ha collaborato con artisti come Luca Carboni, Subsonica, Alessandra Amoroso e Piero Pelù, solo per citarne alcuni.
La musica, per lui, è un fondamentale mezzo di espressione.

E a un certo punto, oltre a essere una scelta di vita è diventata anche un lavoro, coltivato con passione e tanto impegno.

Cominciamo con una domanda tanto semplice quanto complicatissima: cos'è per te la musica?

È uno, forse l’unico modo che ho per tirare fuori me stesso. La musica è innanzitutto un mezzo di comunicazione. La musica non è un fine, è un mezzo.

Se due persone parlano, o usano il corpo per comunicare, è difficile essere completamente sinceri, per timidezza o poca fiducia o altro.

Io con la musica invece mi esprimo in trasparenza, riesco a mistificare le mie paure, e questo mi è successo fin da piccolo, da quando avevo otto/nove anni.

Prima, da piccolo appunto, da fruitore la musica era una forma d’arte che mi suscitava emozioni genuine incontrollabili, il riso e il pianto, poi è diventata un mezzo per comunicarle le emozioni.

Qual è stato il tuo primo contatto con la dimensione musicale?

Mio padre suonava chitarra e basso in alcuni gruppi musicali, mia mamma ascoltava tantissima musica classica. Ricordo che mi capitava di prendere in mano la chitarra di mio padre e con le ultime tre corde cercavo di fare qualcosa, era una sorta di gioco, e cantavo anche.

 

Adesso so che era anche un’esigenza. Ero un bambino molto agitato e quelle azioni mi calmavano, mi aiutavano pure a respirare meglio! Se ci pensi la musica è, forse insieme alla danza, l’unica arte che ti dà un tempo, a differenza della pittura o della scultura ad esempio, e questo mi costringeva a darmi una sorta di comportamento disciplinato che andava ad aggiustare il mio essere iperattivo.

Poi come si è evoluta questa attitudine?

In maniera molto lineare, più andavo avanti e più capivo che questa specie di competizione con me stesso mi piaceva e mi serviva per stare bene. Vedere i miei miglioramenti era una cosa entusiasmante.

 

Poi i miei genitori, vedendo che mi piaceva giocare con le note, mi mandarono ad otto anni al conservatorio di Reggio Emilia. Ricordo che per me entrare in quella stanza dove, al propedeutico, si cantava e si usavano strumenti era una forma di appagamento bellissima che mi serviva anche per entrare in relazione con gli altri. Si perché, anche se può non sembrare, io sono sempre stato e sono ancora molto timido, e usare la musica invece che le parole per condividere con gli altri mi veniva meglio. Anche ora, se vado da qualche parte, io per rompere il ghiaccio, per così dire, faccio meno fatica a suonare che tutto il resto…

Datemi uno strumento e sono uno di voi!

Quanti strumenti sai suonare?

Allora.. Fammi pensare.. Il pianoforte, che ho odiato per anni, la chitarra, il basso, il contrabbasso, la batteria, il sassofono, la tromba, il clarinetto.

Valerio Carboni

Complimenti! Per uno come te che oltre ad essere un musicista è anche compositore, autore e produttore, è sicuramente un vantaggio non piccolo.

Esatto. Soprattutto quando produco qualcosa per i vari artisti con cui collaboro, metti che mi serve, magari per cinque secondi, un passaggio di sax o di tromba cosa faccio, chiamo un trombettista, che giustamente deve essere pagato, per fare quei cinque secondi?

 

Quindi piano piano ho imparato io, ed è molto più comodo e fluido il lavoro con i tempi che decido io.

Poi, è ovvio, se mi servono pezzi importanti da inserire in produzione chiamo quelli che lo sanno fare meglio, ma diciamo che nel settanta per cento delle volte me la sbrigo da solo.

Facciamo un passo indietro; quando e come hai fatto le tue prime esperienze musicali pubbliche fuori dalle stanze del conservatorio?

A quattordici anni facevo parte di un duo, con Alessandro Guidetti che suonava la batteria. Ci chiamavamo CAP e i suoi PELLETTI.

Poi il primo gruppo, gli Idea’s Sound. Poi il gruppo con il quale si cominciava ad andare nei posti a suonare e a venire pagati, I Back Beat di Carpi. Facevamo musica tra il cantautorale ed il rock, ma sempre cose nostre.

 

Era bellissimo poter creare la musica, scrivere tutto quello che mi passava per la testa e che aveva urgenza di uscire dai miei pensieri e dalle mie frenesie. Ancora adesso, quando ogni tanto mi capita di riascoltare qualcosa, mi stupisco di come mi riconosco per quello che in quel momento ero.

E quando hai sentito, o deciso, che la musica per te poteva essere anche un mestiere?

Adesso ti stupisco...Io ero iscritto ad ingegneria informatica, in pari con gli esami e con una media voti molto alta...Mi piaceva tantissimo anche perché fin da ragazzino mi sono cimentato con l’informatica, anche associata alla musica. Arrivo al quinto anno, cioè l’ultimo, chiedo a mia madre se potevo prendermi un anno sabbatico per potermi dedicare in maniera quasi totale alla musica. Mia madre acconsente dal momento che si fidava di me, e poi ero molto bravo e responsabile nello studio. In questo anno vedevo il processo che faceva la mia mente giorno dopo giorno.

Pensa che mentre ero all’università mettevo sempre la sveglia alle 7.17 in maniera maniacale, mi piaceva e forse avevo bisogno di questa ritualità. Me la imponevo. Nell’anno dedicato alla musica invece impostavo la sveglia ogni giorno a un orario diverso: 8.23, 9.12, il giorno dopo magari 9.13. Mi piaceva il fatto di uscire da quella forma di rigidità auto-imposta nella quale sono sempre rimasto.

 

Capivo, piano piano, che potevo essere produttivo e responsabile anche senza costrizioni. Ed è stata per me questa una cosa potentissima, cominciavo a sentirmi sempre più indipendente, anche economicamente perché la produzione musicale era sempre più importante. Sono andato a vivere da solo pagandomi l’affitto, ho cominciato a comprare gli strumenti e così via.

Poi, mi prendo anche il secondo anno sabbatico. Poi decido, con ovvia delusione da parte dei miei genitori, di interrompere definitivamente gli studi, con solo quattro esami da fare rimasti, per dedicarmi completamente alla musica. Le due cose, studio e mestiere, ingegneria e musica, erano diventate due cose molto grosse ed ho dovuto decidere quale mantenere, e ho scelto la musica.

"[...] ero iscritto ad ingegneria informatica, in pari con gli esami e con una media voti molto alta...Mi piaceva tantissimo anche perché fin da ragazzino mi sono cimentato con l’informatica, anche associata alla musica. Arrivo al quinto anno, cioè l’ultimo, chiedo a mia madre se potevo prendermi un anno sabbatico per potermi dedicare in maniera quasi totale alla musica. Mia madre acconsente dal momento che si fidava di me, e poi ero molto bravo e responsabile nello studio. In questo anno vedevo il processo che faceva la mia mente giorno dopo giorno".

Possiamo dunque dire che quei due anni sabbatici sono stati il tuo trampolino di lancio.

In un certo senso sì, in quei due anni sono cambiate molte cose e sono cambiato molto io, ho vissuto le cose in un modo diverso. Ho trovato una sorta di dominio sul tempo, sulle convenzioni, sul senso del dovere fine a se stesso. Mi svegliavo e potevo decidere com’era la giornata.

Sono entrato in un’ottica completamente creativa, ero e sono estasiato dal pensiero che una cosa prima non c’è e poi la faccio e quindi esiste, e a farla esistere sono stato io. E ho capito che era la mia dimensione ideale di vita.

 

Certo, questo vale anche per altri mondi, ma nella musica, o nell’arte in generale, penso che si raggiunga il massimo della soddisfazione, soprattutto quando poi queste creazioni vengono apprezzate e scelte da altri artisti.

Ecco, adesso parlami delle tue esperienze da professionista.

Ho cominciato con Antonella Lo Coco, nel tributo ad Elisa. Poi Antonella è andata a X-Factor, è entrata in un giro più alto ed in questo giro ci sono entrato anche io.

Poi mi hanno chiesto di fare la colonna sonora di un film con Angela Finocchiaro e, in seguito, con Arturo Brachetti, di uno spettacolo teatrale di Aldo Giovanni e Giacomo.

E ovviamente la mia vita, senza neanche accorgermene, è cambiata.

Valerio Carboni nel suo studio personale

Tu sei un compositore/autore/produttore della Warner, come è cominciata questa collaborazione?

Ero stato invitato ad un camp di due settimane organizzato dalla Warner, in veste di arrangiatore.

Mi ero portato computer, strumenti, casse, microfoni, la mia stanza era praticamente un piccolo studio di registrazione. Quindi molti autori venivano da me per arrangiare e pre

-produrre anche solo un’idea che avevano avuto, una strofa o un ritornello. Io però, non mi limitavo ad arrangiare, mi veniva spontaneo dare suggerimenti sulle melodie e anche sui testi.

 

La fortuna, o il caso, o il destino ha voluto che due autori importanti come Saverio Grandi ed Emiliano Cecere stavano creando una canzone per Gianni Morandi. Io sono entrato con le mie idee in questo pezzo, e dopo una settimana Morandi ha deciso di inciderlo.

Successivamente la Warner, era credo il 2015, mi propone 3 anni di contratto.

Da lì comincio a collaborare, sia in scrittura che in arrangiamento, che in produzione, con molti artisti importanti alcuni dei quali spesso vengono in questo studio professionale che ho realizzato a casa mia.

Quali sono questi artisti?

Oltre alla già citata Antonella Lo Coco, ho collaborato, tra scrittura, arrangiamenti e produzioni, con Alessandra Amoroso, Nek, Luca Carboni, Mario Biondi, Morandi, Marco Masini, le Vibrazioni, gli Stadio dei quali ho arrangiato e co-prodotto la canzone vincitrice di Sanremo 2016, i Subsonica, Mietta, Giusy Ferreri, Eugenio Finardi, Piero Pelù e tanti altri.

Ho all’attivo circa un centinaio di canzoni pubblicate di cui più di 50 singoli. Come produttore invece di canzoni ne conto poco più di 1300.. E ho ricevuto 15 certificazioni tra dischi d’oro e di platino.

Diciamo che mi sono molto impegnato in questi anni!

"[...] Ho all’attivo circa un centinaio di canzoni pubblicate di cui più di 50 singoli. Come produttore invece di canzoni ne conto poco più di 1300.. E ho ricevuto 15 certificazioni tra dischi d’oro e di platino".

Valerio, cosa consiglieresti a un giovane che oggi si affaccia al mondo della musica?

Mah...non credo di essere il più adatto a dare consigli perché come ti ho spiegato il mio percorso è stato soprattutto all’inizio un percorso molto personale ed esistenziale, cioè per intenderci non consiglierei mai a nessuno di abbandonare l’università a quattro esami dalla fine!

Però posso dire questo: se la musica, sotto ogni sua forma, comincia a chiedere sempre più spazio dentro, se scala la classifica delle priorità interiori, se si sente che si sta molto meglio a farla seriamente piuttosto che occasionalmente, allora consiglio di spingere forte.

 

Magari darsi un po’ di tempo per capire bene che strada prendere e se ne vale la pena, ma in quel po’ di tempo bisogna vivere con lei e per lei, anche perché poi se uno sta meglio riesce a fare bene anche altre attività necessarie all’essere umano come socializzare, empatizzare, creare, condividere.

Hai altri progetti importanti in divenire?

Si, ho un po’ di belle cose in pentola, ma per scaramanzia preferirei non parlarne!

Scopri di più su Valerio Carboni
Intervista a cura di Alberto Pioppi

Regia dello studio personale di Valerio Carboni
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