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LA MUSICA

CAMBIA

CAMBIA

CAMBIA

La musica cambia magazine posterzine

Intro a cura di
Alberto Pioppi

Sociologo del Territorio
Interviste a cura di
Alberto Pioppi e Arianna Migliari

Ricordi la prima volta che hai suonato uno strumento?


Avrai sicuramente sentito un brivido lungo la schiena al primo accordo che finalmente esce nella tonalità giusta. E da lì in poi un fiume in piena di emozioni, di ore dedicate, di aspettative, di gioie e di delusioni.

Ricordi la prima volta che hai scritto le parole di un testo?

Non puoi avere dimenticato la sensazione di compimento nel rileggerle, nel cambiarle, nel provare a musicarle e nel riuscire alla fine a cantarle. 


E quanti come te, prima di te e dopo di te.

Persone diverse, per età e per gusto musicale, per propensione al sacrificio
e per predisposizione alle scelte, e scegliere vuole anche dire rinunciare
ad altro. Ma tutte accomunate da un'unica certezza: la musica cambia.
Non puoi più essere la stessa persona se ti accompagni con lei, se le concedi spazio, se la metti in cima alle priorità, se la elevi a destino, se la tatui sul cuore. La musica cambia perché il mondo cambia, esige aggiornamenti e nuove modalità di interpretazione e di espressione.


La musica cambia nel tempo e cambia il tuo tempo.

 

Questo concetto è stato l'orizzonte che con questo progetto abbiamo voluto esplorare, abbiamo voluto mettere sotto la stessa luce emozionale diverse storie di diversi artisti, diverse conquiste e diverse visioni. Raccontare i vostri vissuti e le vostre sensazioni, accorpandole ed avvolgendole ad un tronco comune che sempre di più si nutre di nuove storie per far nascere foglie di rinnovata verdità, è stato per noi entusiasmante. Ma La musica cambia è un progetto che non ha una fine, può e deve arricchirsi di nuove energie e di nuovi pensieri, perché la musica è infinita così come è infinita l'anima che la attraversa e che la rende unica.

 

Questo è il motivo per cui vogliamo creare uno spazio virtuale in continua espansione e aggiornamento, in cui portare avanti la nostra ricerca e le risonanze comuni che si attivano leggendo racconti di vita vissuta.

 

Progressivamente vedrete costruirsi questo longread fatto di testi, audio e immagini, in cui parliamo di musica e al quale chi vuole può aggiungere un pezzo, la sua storia, e intrecciarla con l’ordito comune.

Intro
Testo
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LE INTERVISTE

Ápeiron

Ápeiron

Irene Poziello voce Fabian Arduini basso Davide Davoli chitarra Gian Maria Guerra batteria

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Gli Ápeiron sono un gruppo rock emergente di Novellara. Nati nell'agosto 2014, si occupano per lo più della composizione e dell'esecuzione di brani originali. Il loro primo singolo si intitola Tears.

Allora ragazzi, diteci: chi siete?

Siamo quattro persone, due delle quali si conoscevano dal 2014, e poi pian piano abbiamo messo su il bassista che poi ci ha portato la nostra cantante, nel 2016. Facciamo musica e fin dall’inizio abbiamo deciso di scrivere i pezzi che suoniamo. All’inizio era  un gran flusso di coscienza, uno stream of consciousness alla Joyce: tutto fluiva per mezzo della musica e delle parole (30 minuti a pezzo era lo standard). Questo ci ha formato tantissimo nel nostro modo di suonare ed è anche stato un grande allenamento per il modo in cui, per suonare quei pezzi, dovevamo coordinarci e stare sul palco. Oggi le cose sono un po’ cambiate: il sound è rimasto (l’influenza psichedelica e la voglia di sperimentare) ma in una forma più circoscritta e definita; abbiamo tolto le improvvisazioni che non finivano più e strutture non ben determinate dei pezzi.

 

Io sono entrata nel gruppo nel  2016 e ho trovato un gruppo con un sound già ben definito. Ho solo dovuto mettere le parole e la voce perché per il resto c’era già tutto. È stato molto confortevole.

Anche per noi il suo arrivo è stato davvero molto confortevole; la cosa incredibile è che è come se ci fosse sempre stata: è arrivata, il primo giorno, e ha iniziato a cantare subito una melodia che stava in piedi dall’inizio alla fine e a scrivere parole sulla musica.

Siamo quasi tutti di Novellara, ci vedevamo in giro… a un certo punto si sono intrecciate le strade in modo così lineare, come per magia, davvero.. non avrei mai immaginato che le cose si sarebbero evolute in questo modo! 

Come definite il vostro genere musicale, se lo definite?

Non ci definiamo; se dovessimo definirci, siamo appartenenti alla famiglia rock; è rock il nostro stato d’animo sul palco, e la voglia di fare saltare e divertire con noi il pubblico, ed è questo quello fondamentale.

Abbiamo dei pezzi un po’ diversi, alcuni sono ai confini col grunge, altri un po’ più progressive, ci piace mettere nei pezzi cose che non c’entrano con il pezzo, cose molto progressive musicalmente.

 Io invece col testo cerco di tenere le parti unite, se no tutto si scolla!

In che lingua cantate?

Scrivo per lo più in inglese; con loro sono sempre stata abituata a scrivere sul momento, di getto sulla musica e quasi mai cambiare il testo successivamente e l’inglese era quello con cui mi sono trovata meglio. Per scrivere un testo in italiano serve molto più studio, la scelta delle parole è molto più variegata, ed è più complesso, mi ci sto mettendo. Capisco che il mio stile debba ancora evolvere sotto questo aspetto!

Noi le lasciamo carta bianca; ed è così, perché noi abbiamo questa filosofia nel far musica,  o, almeno, l’abbiamo avuta fino ad adesso: il pezzo nasce nel momento in cui lo manifesti, lo suoni, lo rendi vivo. Non che uno scrive il pezzo e lo porta agli altri: noi lavoriamo che siamo lì insieme e tutti e quattro lavoriamo insieme con la massima libertà interpretativa espressiva e finché tutti e quattro non siamo d’accordo su cosa si suona non lo si suona. A volte questo è molto difficile perché veniamo da retroscena culturali diversi. Ma lo creiamo insieme, in sala prove, nella massima libertà di ciascuno.

Ecco, a proposito dei vostri retroscena culturali diversi: com’è stata l’origine personale della vostra passione?

A 14 anni, ero in campeggio, mi sono svegliato un giorno e mi sono detto: «Voglio suonare Another one bites the dust, dei Queen». Allora ho deciso che, una volta tornato a casa, avrei iniziato ad andare a lezione di basso. È stata un’esigenza improvvisa – ogni tanto sento l’arrivo di una esigenza nuova per evadere mentalmente.. non mi chiedere perché; ma stavolta è stata questa, anche se fino a quel momento non avevo mai avuto esigenza di suonare in vita mia.

Dopo un anno di indecisione tra suonare batteria e chitarra, ho iniziato a suonare la chitarra, per due anni; però a un certo punto, a 12 anni, ho smesso perché sentivo che non mi dava niente.. ho preso in mano due pezzi di legno e ho iniziato a picchiare cose a caso. Dopodiché ho iniziato ad andare a scuola di musica, è arrivata una batteria e… le prime soddisfazioni.

Inizialmente ascoltavo solamente; i miei genitori non sono musicisti ma nella mia vita la musica c’è sempre stata perché pensavano che arricchisse molto la vita. Da piccola sono stata sempre molto introversa non l’ho quindi mai sperimentata; poi, un giorno, ho visto l’apertura di una nuova sede Cepam e ho provato, più che altro per cercare di aprirmi di più agli altri. Ho iniziato a prendere lezioni quando avevo 10 anni ; avevo appena compiuto 16 anni e ho saputo che un gruppo cercava una cantante. Sto iniziando a suonare pianoforte, mi ci sento a mio agio.. lo sento come se fosse un prolungamento del mio intero corpo non solo braccia, ma piedi e testa.

Io vi racconto la storia mia e della musica: a un certo punto della mia esistenza i miei genitori hanno deciso che saremmo andati molto spesso in vacanza in Trentino e il viaggio in macchina era pesante...e così i miei mi hanno preso il cd dei Nomadi. A un certo punto della mia vita ho avuto un grave lutto, avevo 9 anni, volevo sfogarmi, ribellarmi contro il mondo perché stavo male; allora ho iniziato ad ascoltare la musica che ascoltava mio padre perché eravamo rimasti io e lui in casa. Gli ACDC, ad esempio, volevo suonare come loro; poi Led Zeppelin’… suono da quando avevo 10 anni. Ho esplorato e studiato tante cose, armonia, solfeggio, suonato vari strumenti. Adesso siamo in una situazione per la musica che è così: quella che  gira ora per radio è malaticcia, c’è un po’ poco. Tu senti una canzone e dici «Ah, bella!», poi ne ascolti un’altra e vedi che è più bella ed è stata pubblicata 5 anni prima… adesso io ascolto e suono solo la suite 995 di J. S. Bach, per clavicembalo trascritta. Però la musica mi piace da matti; poi scrivere una canzone è stupendo.

Franco Poziello (@benapoz su instagram)3

Come nasce un vostro brano?

In sala, iniziamo a improvvisare e se si trova un riff si parte da quello; oppure una melodia che piace e che si propone agli altri e poi si cambia (stravolge!), rimane un ricordo ma poi diventa una canzone. Si trova il ritmo, i primi accordi di chitarra e basso e poi improvvisazione con la voce (un finto inglese) e da lì inizia a scrivere le parole. Nasce per forza insieme il testo.

E comunque dipende; perché ci sono pezzi ai quali devi pensare e pezzi ai quali non devi assolutamente pensare, devi essere in uno stato mentale un cui sei completamente avvolto da quello che risuona. È l’arte che chiama l’artista, sempre. Teniamo anche le luci basse in sala prove, infatti.

Abbiamo una sala prove costruita in una casa vecchia in campagna; l’abbiamo rifatta da zero, pezzo per pezzo, intonaco, vernice, grattare gli scuri … l’anno scorso ci siamo presi 6 mesi per crearla e sistemarla, arredarla, abbiamo investito tanto sudore e fatica e ora questa sala prove ci lega un sacco. Voglio dire, io studio all’università, leggo Nietzsche e fare questi lavori manuali è stato pazzesco, bellissimo, ci ha uniti davvero tanto.

by @anto_iurlaro su instagram 2.jfif

Quando avete capito che il gruppo funzionava?
Che eravate voi…

Per me è stato quando abbiamo provato la prima canzone, il primo giorno. È stato durante la prima prova insieme: ho sentito come un’onda di suoni, ho sentito che era qualcosa che poteva davvero diventare grande e crescere, e ci credo ancora. È stato qualcosa di soprannaturale, davvero.

Durante il primo concerto: abbiamo fatto un pezzo e appena abbiamo finito, è partito un applauso…ma di quelli veri.

Quando porti sul palco un pezzo con loro porti il cuore, cavolo; quando porti una cover, porti una copia.

Sul palco ti arriva quella scarica di vita che in prova non hai.

Ci sono state anche delusioni; concerti vuoti di persone; amici che non sostengono tanto, insomma scarichi per questioni più culturali che altro..il “culo pesante” e l’abitudinarietà; o il fatto che il rock “è da sfigati”.

Cosa pensano del vostro progetto i vostri amici,
i vostri genitori, morosi/e?

I miei genitori sono d’accordo - e hanno adottato tutti loro; mi sostengono in questo progetto perché vedono che mi dà vita, non sarei la stessa se non avessi questo gruppo. Prima sentivo che è come se non avessi avuto il mio posto nel mondo, una direzione precisa. Adesso ho un sogno preciso ed è grazie a loro che ho i piani chiari. Loro accettano quanto sono stramba...

Per quanto ci pesino le nostre debolezze, i nostri limiti...qui li accettiamo e li condividiamo. Capita che ci abbracciamo e piangiamo. (…) Da un lato c’è l’arte che ti chiama e ti dice: “Davide vieni con me!”; dall’altra c’è la mia morosa: “Davide vieni con me!”. E Poi mio padre mi dice: “Davide ma...questa casa non è un albergo”. E ha ragione. E mi dice, “Vai all’università”. Se fosse per me so cosa vorrei fare: chiudermi in una sala prove e stare lì a suonare e comporre. Ma c’è tanto bene e affetto che ci tira fuori da questo e che vogliamo tenere.

A cosa avete rinunciato e a cosa rinuncereste per la
vostra passione?

Molto spesso ho rinunciato a molte uscite con gli amici; e sarei disposto a rinunciare alla maggior parte delle cose che faccio.

Adesso sto già rinunciando a quello a cui posso rinunciare (ore di studio per la scuola, uscite con gli amici), ma non ho molto altro da sacrificare quindi mi rendo conto che per ora è facile dire «Rinuncerei a tutto per la musica». Di sicuro però non voglio arrivare a cinquant’anni e dire «Se avessi investito di più nella musica!». Non voglio avere nessun rimpianto.

Rinuncio a ore di studio; a tanta benzina e tanti risparmi perché suonare costa. Rinuncio a ore di sonno, quello è pesante; forse ancora non posso dirti «Rinunciare alla mia stabilità mentale» perché non lo vorrei.

Rinuncio a trovare lavori fissi perché non so cosa possa succedere con la band; rinuncio a prendere aerei sicuri! Vado a lavorare il sabato mattina a verniciare degli appartamenti per tirare su dei soldi da investire in attrezzatura. Mi pesa il fatto che quel che mi sta portando a fare la vita, cioè chiudersi in quattro mura per imparare a fare qualcosa; (…) quel che mi manca sono i soldi, non l’impegno.

Che obiettivi vi siete dati?

Incidere un album.

Non vediamo l’ora di scrivere! Noi vogliamo scrivere tante cose nuove!
Più andiamo avanti più cresciamo e andiamo avanti.

Àpeiron: perché?

Un giorno, eravamo io e Gian Maria in un pub a Novellara e dovevamo decidere il nome del gruppo; ci chiedevamo: “In italiano o in inglese?
In italiano è da sfigati; andiamo di greco antico”. L’arché di Anassimandro, è un bel concetto se ci pensi; è infinito, indeterminato…

Comunque una volta ci hanno detto anche : “Oh, ma vi chiamate come il drink”!

Momento più emozionante, che vorreste rivivere?

Il primo giorno di prove!

Il primo applauso.

Quando siamo tutti e quattro insieme e parliamo di noi o tra noi o con qualcun altro.

Cos’è la musica per te?

Io scrivo per non far sentire le persone sole. Per me è sempre stato quell’amico che è con te quando sei sola. Voglio essere un supporto per chi non ha supporto nella vita; voglio che sentano quello che canto e che dicano “Anche io mi sento così”.

Suono per me perché ne ho esigenza fisica. Ma se mi esce fuori qualcosa di veramente bello non vedo l’ora di farlo sentire a tutti.

L’arte la fai perché non puoi non farla, secondo me; ma è anche vero che  la musica dipende dal pubblico: la musica prima ancora di essere suono è comunicazione.

Il suono è movimento e intenzione; quando suoni lo fai con tutto il corpo, con tutto te stesso e con tutto il cuore. È come quando dici “ti amo”: non puoi dirlo stando fermo, ti prende così tanto che sei tutto te stesso e ti muovi mentre lo dici.

Noi facciamo arte, non politica. Ma se ci chiedono di andare a una festa di estrema destra noi non andiamo, non ci mettiamo la mia faccia.

Città? Colore che vi rappresenta?

Amsterdam, la sera.

Verde – unione di giallo e blu, caldo e freddo.

La canzone che pensate che vi rappresenti meglio?

Dear Liar o Katharsis

Un buon musicista è per forza anche una bella persona?

Per essere un buon musicista, devi avere rispetto per gli altri, sensibilità artistica, volersi bene, bisogna essere buone persone. Almeno rendersi conto che siamo tutti esseri umani su questo mondo. L’arte ti fa diventare una persona migliore. L’arte e l’amore sono le cose più belle del mondo.

Non siamo mai i primi a dire su a qualche altro gruppo.

The Fruit Machine

The Fruit Machine

Alessandro Bonacini voce Enrico Delia basso Jacopo Bertolini e Alberto Delia chitarre Luca Bassi batteria

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The fruit Machine nascono a Reggio Emilia nel 2017. Influenzati da generi diversi (principalmente Arctic Monkeys), trovano un assetto stabile a livello di formazione e personalità nel 2019. Orientati verso un punk-rock schietto, The Fruit Machine si sono fatti conoscere attraverso live documentati in pieno stile D.I.Y.. Con brani che speriamo di sentire al più presto in streaming.
 

Raccontateci le origini del vostro gruppo.

Io ho iniziato a suonare perché ho trovato in casa delle chitarre rotte; le ho portate da un liutaio, perché le aggiustasse, e quando le ho recuperate ho iniziato a suonarle, seguendo un libretto degli accordi. Poi ho continuato con tutorial su internet.

Perché Fruit Machine?

È nato perché io sono un grande fan degli Arctic Monkeys e c’è un loro pezzo, The view from the afternoon (che noi facciamo anche come cover) che secondo me è un po’ l’idea del genere che volevo fare: punk ma con influenze degli ultimi decenni; e nel testo della canzone c’è questo verso che dice “I wanna see you take the jackpot out the fruit machine”. Mi piaceva tantissimo questo verso e questa parola, “fruit machine” (che nel testo vuole essere un riferimento alla slot machine); me lo sono scritto con il nastro isolante sulla chitarra e da allora è rimasto lì.

Voi fate cover o anche canzoni originali?

Recentemente abbiamo sentito una certa stanchezza nel continuare a suonare solo cover, per questo abbiamo iniziato a fare qualcosa di nostro: un giorno, durante le prove, ci siamo accorti che eravamo scarichi e non riuscivamo a suonare... allora abbiamo completamente rimaneggiato un pezzo inglese, e gli stiamo scrivendo un nuovo testo, in italiano.

Canzoni e stileThe Fruit Machine
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In Italia si dà tantissimo importanza al testo...

Sì, e questo è un punto che abbiamo spesso affrontato come band: oltre alla nostra appartenenza a una tradizione, quella italiana, che dà molta importanza al testo, dobbiamo tenere presente lo stile british soprattutto come attenzione alla musica. Rivedere lo stile italiano con influenze d’oltremanica è qualcosa di nuovo.

 In Italia si fa fatica a sfondare se non curi tanto il testo (anche se, paradossalmente, si è abbassato il livello dei testi!) e la parte musicale si sottovaluta; la bravura nell’eseguire un pezzo è sottovalutata. Senza sminuire altri generi e stili, bisogna curare il testo e portarlo oltre il senso comune e nello stesso tempo tenere alto il livello tecnico musicale.

Avete idea di una direzione da prendere?

Dove indirizzare il nostro suono? Lo stiamo sviluppando, emerge durante il lavoro e con il consolidarsi della formazione e dei suoi componenti. In generale, però, sappiamo che vorremmo trovare la giusta via di mezzo tra intercettare pubblico con gusto affine al nostro facendo cover e, nello stesso tempo, metterci dentro e iniziare a sviluppare qualcosa di nuovo.

Oltre alle prove e ai live, avete l’idea di un disco?

Sì (e direi che è il primo pensiero di ogni band che sia tale!); ci piacerebbe farne uno sperimentale: con pochi pezzi, anche semplici, senza particolari virtuosismi tecnici, ma che spazino nel genere punk-rock, in modo tale da esplorare i vari tipi di suono.

Rapporto con la musicaThe Fruit Machine
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Come vi siete sentiti la prima volta su un palco e non dietro il vetro di una sala prove?

Io ricordo di essere salito sul palco, di avere attaccato il jack… e poi ho solo degli sprazzi di ricordi in cui ne sono successe di ogni! Credo sia stato un misto di ansia e tranquillità di suonare davanti a gente che apprezzava.

La sera prima mi sono ripassato tutte le canzoni, perché avevo paura di dimenticarle… ero abbastanza in ansia!

Io la sera prima penso di aver dormito tre ore… e pensato a tutti i modi in cui poteva andare male!

Nel live, verso la fine, ho fatto un assolo di batteria e, nel momento cruciale, in cui ero più preso, mi è partita la bacchetta! Si è sentito dal pubblico un “Nooooooo”! Me l’hanno ridata, dopo poco.. e visto da qui, a distanza di tempo, è stato un bel momento!

Prima di salire ero molto in ansia... una volta partito stavo bene! Una volta superato lo scoglio, ti piace!

Cos’è per voi la musica?

Fin da piccolo sono stato circondato dalla musica; per me la musica è sempre stata una compagna e una passione. “Sposato con la musica, mai stato single” volendo citare Salmo.

Per me la musica è un’arte superiore, rispetto a tutte le altre forme di arte è la più completa: riesce a trasmettere un numero incredibile di emozioni. Per me è anche una droga: ascolto per ore e ore musica, qualsiasi cosa, ogni giorno devo farla, se no non riesco ad andare avanti.

L’ho sempre vista come una forma di arte che colpisce le emozioni. Ho scoperto i vari generi musicali col tempo, dal pop commerciale (che secondo me è più “usa e getta” come approccio) a quella più complessa e acuta nel colpire certi tasti delle persone, più sfaccettature e finezze. Non che una sia migliore dell’altre, ma questo è l’effetto che fa a me: mi fa concentrare, ad esempio; è uno sfogo e una consolazione quando ne ho bisogno; è legata a ricordi, che a volte è importante rievocare; suonarla poi ti prende anche fisicamente.

Io alla musica ci sono arrivato per gradi. Spesso la lego a ricordi o esperienze passate, un po’ come quando senti un profumo per strada e parte il flashback ed entri nel film. E’ molto soggettiva: lo stile che ho scelto (di suonare ed ascoltare) è quello che per me è più significativo a livello emozionale; ma non significa che un certo stile di musica non sia corretto o sia “sbagliato”, anzi, è per questo che cerco di ascoltare più generi possibili, per vedere che impressioni ti lasciano e si collega sempre al proprio vissuto. Quando poi la suoni, e senti che viene perfetta, c’è quasi un momento di estasi.

Io non ci sono arrivato da amante della musica ma visto che amavo costruire; trovavo oggetti vecchi, rotti ho iniziato a riassemblarli. A 12 anni ho assemblato il mio primo stereo e da quel momento ho iniziato ad ascoltare Pink Floyd, Eagles, ecc…e da lì ho iniziato ad appassionarmi alla musica. Ora ascoltare musica mi fa ricordare quanto erano belli quei momenti di quando avevo 12 anni: stavo davanti allo stereo da quando tornavo a casa da scuola alle sette di sera.. e mi fa male. La riconosco come arte, ma non totale, si completa insieme a tutte le arti, devono essere insieme per essere perfette.

La musica vi ha cambiato?
Se sì, che cosa avete sentito che è cambiato?

A me ha sempre dato l’impressione di  arte in generale come modo per lasciare una traccia di sé nel mondo.. ci sono vari modi per dirlo, non so. Non riuscire a condividere almeno un pochino i tuoi pensieri, che molto spesso non sono banali, con chi ti sta attorno è un peccato; sento che è importante cercare di comunicare ad altri quello che hai provato e trasmetterlo.

Io prima mi facevo molto influenzare da quello che c’era attorno (sia nell’ascoltare, che nel vestirmi, nel pensiero); ascoltare e fare un certo tipo di musica, ti fa riflettere sul fatto che tu sei fatto in un certo modo rispetto agli altri, che non devi per forza uniformarti, come fai la tua musica è parte di te, ti fa pensare con la tua testa. Mi ha permesso di elaborare quello che sono adesso, un consolidamento identitario e non lo smarrimento.

Grazie alla musica io conosco loro; può sembrare banale ma è vero. Ti fa conoscere persone, fare esperienza. Oltretutto, la batteria è quella che sento più mia; batto le mani e i piedi anche quando parlo e sento che mi emoziona tanto.

Fare parte di una band mi ha reso ancora più legato alla musica. Grazie alla band posso espormi e stare davanti al pubblico e questo era un mio sogno nel cassetto.

La musica ha avuto un grande impatto sulla mia vita ma credo che valga per tutti: dà qualcosa alle persone. Mi viene in mente quando ero impanicato durante le verifiche, mi veniva in mente e mi rilassava, e me ne ha risolte davvero tante. Danno qualcosa al nostro cervello che nient’altro può dare.

Ha la capacità di attivare più parti cerebrali contemporaneamente: cognitiva, motoria, sistema limbico…è davvero forte.

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A cosa pensate che potreste rinunciare per la musica? Che prospettive avete tra 5 anni?

Spero saremo ancora noi, avremo il nostro seguito di fan e il nostro disco; mi piacerebbe molto rinunciare a una vita “normale”! Rinunciare alla vita di ufficio e suonare come musicista professionista.

La penso come lui; in più, aggiungerei che rinuncerei a un altro sport a cui sono molto legato e a qualche ora di lavoro da libero professionista.

Io ho già rinunciato a uno sport importante per un corso di chitarra. E tra qualche anno? Non lo so, non ho ancora deciso.

Penso che potremo essere una band solida, con un buon lavoro da proporre. Sto già mettendo da parte delle altre passioni per questa! Anche se due anni fa non l’avrei mai detto.

Vorrei fare una vita legata alla musica e che mi piaccia e in cui guadagno meno, piuttosto che farne una con un guadagno economico più alto ma meno di soddisfazione.

incertezze e dubbiThe Fruit Machine
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Se vi dico “musica”, qual è la prima parola, emozione, colore, suono che vi viene in mente?

Comfortably numb dei Pink Floyd. E in particolare, Gilmour che la suona, concentratissimo, sullo sfondo nero, in estasi.

Star bene!

Il motivetto di Paradise city dei Guns 'N' Roses.

La sensazione di un ricordo d’infanzia che torna alla mente.

Una chitarra che aveva un amico di mio padre e che suonava a casa nostra; e il video di Welcome to the machine, in cui c’è un robot gigante che dice: “Vieni figliolo, benvenuto nella macchina!”, e che lo ammazza: la macchina intesa come il sistema, le case discografiche, e gli altri sono quelli che si ribellano.

A me si collega sempre a un tramonto, a situazioni luminose. Alla fine di qualcosa o l’inizio di altro…una transizione.

La tecnica non c’entra, noi ci occupiamo di emozioni.

Daniele Manzini

Daniele Manzini

Tecnico del suono e musicista

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Daniele Manzini, ventiquattro anni, musicista e tecnico di riferimento dello Studio di Registrazione e Sala prove Seltz. Non solo il classico ingegnere del suono ma anche uno spirito musicista.

Tu qui sei il fonico del Seltz; raccontaci qualcosa della tua storia e di come sei arrivato alla musica.

Alle superiori non ero uno studente modello...a me piaceva tanto la chimica, ma il resto non andava per nulla. Dopo le superiori non sapevo bene cosa fare, finché non ho scoperto il SAE Institute di Milano, dove ho studiato Electronic and Music Production, sostanzialmente un approccio digitale alla musica. Questo è stato il punto zero; questa scuola mi ha dato un sacco di nozioni e mi ha permesso di apprendere il linguaggio di questo mondo, le basi; ma appena uscito non sarei stato in grado di essere competente. Per fortuna la passione è rimasta e ho iniziato a fare un sacco di esperienza da solo, tante prove con i miei amici e con me stesso, mi sono cimentato in situazioni reali, anche gratuitamente. Poi, quando mi sentivo pronto, mi proponevo come professionista.

È stato un percorso a strati: il primo strato è stato quello di imparare la teoria e uscire da scuola; poi, il secondo strato, iniziare a provare a metterle in pratica queste competenze, anche sbagliando, magari; infine, il terzo, per me è stato porsi delle domande quando devi risolvere dei problemi, e quindi trovare delle risposte e acquisire altre competenze. 

Mi era chiaro, volevo stare in quel mondo; è possibile che io spesso sia approssimativo, ma quando una cosa mi interessa non lo sono per nulla: finché non trovavo una risposta non ero contento, era una continua ricerca, e per me era necessario.

È stata una necessità e anche un voler unire la mia passione per la musica all’esigenza di lavorare.

Ti sei sentito diverso a un certo punto? Qualcosa è cambiato?

Sì, mi sono sentito progressivamente più sicuro e questo mi ha cambiato la vita, davvero. E cioè quando ho capito di avere un buon orecchio, una buona empatia, competenze tecniche e voglia di fare.

Questa è la tua unica attività per adesso?

Sì, per ora sì e pian piano perché è anche un mondo che va a fiducia: i gruppi oggi hanno bisogno di percepire professionalità e fidarsi  del tecnico che ascolta i tuoi progetti e ti aiuta a realizzarlo.

Poi a volte capita che mi chiedano lezioni di una cosa o un’altra, ad esempio di insegnare come insonorizzare una stanza.

Tu come vivi la musica?
Cos’è la musica per te?

Non saprei neanche dirlo; è così automatica e necessaria per il mio benessere da non avere quasi uno scopo preciso… Quando ho un buco di tempo, o anche adesso mentre parlo con te, io suono. La paragono anche un po’ allo sport: devi concentrarti, allenare i riflessi, essere pronto. E dopo ti senti rilassato e tonificato.

Quando ascoltavo i grandi della musica rock a tredici anni, mi piacevano tantissimo ed erano dei miti però mi dicevo: «Questa canzone è perfetta, ma….»; c’era sempre qualcosa che avrei voluto fosse diverso. Allora, mi ero detto, voglio imparare a suonare la chitarra, intanto per suonare le canzoni che mi piacciono e poi per scrivere canzoni come quelle che mi piacciono ma senza quegli errori che a me sembrava ci fossero. Io volevo scrivere la canzone perfetta, come se ce l’avessi avuta sempre sulla punta della lingua.. dovevo farlo. 

Imparavo gli accordi, cercavo su internet le tablature delle canzoni ma spesso tiravo giù le canzoni a orecchio o mi scrivevo da solo le canzoni difficilissime per potermi allenare. 

Ho studiato teoria musicale ma senza aver studiato, ci sono arrivato da un’altra parte, cercando e facendo ogni singola combinazione; il che è una cosa che mi piace molto perché il rischio di aver studiato e basta è l’andare sempre lì a parare, su quel che funziona; lo studio della musica fino a un certo punto va benissimo ma non bisogna andare troppo oltre o  ti mette i bastoni tra le ruote perché ti limita nel cercare qualcosa di tuo e di davvero emozionale e originale.

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A che punto sei con la canzone perfetta?

Poi ho capito che la canzone perfetta non esiste.. ma è sempre così per me: parto da un foglio bianco nella mia testa, vado a caso, vado per tentativi e procedo verso la ricerca dello stupore, cioè qualcosa che mi faccia dire: “UAU!”. Una volta che l’ho trovato allora so che posso costruire qualcosa a partire da quello e ci metto testa e tecnica. Io ho sempre iniziato così però: metto le dita a caso e vedo cosa succede; una volta che ho trovato qualcosa che davvero mi piace, costruisco sopra a quello.

Hai canzoni tue?

Sì, io e un mio amico abbiamo un progetto musicale in corso. Di canzoni ne ho scritte un’enormità; le scrivo, dico “uau!” poi, dopo un po’ non mi piacciono più o le lascio a metà. Cose del genere.

Cosa pensi della musica di oggi, che incontri nel tuo lavoro?

Intanto, non capisco chi vuole imparare uno strumento e non lo prende in mano. L’apprendimento dello strumento musicale avviene anche tramite la sua fisicità, il prenderlo e usarlo, esplorarlo, impararlo senza usare la teoria ma leggere la teoria dopo aver già capito il funzionamento pratico.
 

Oggi c’è questa immagine del grande musicista e del grande successo “che ce la fa”, ma credo sia un grande stereotipo. Poi oggi c’è il grande fenomeno della trap per esempio, lì la sfida non è creare qualcosa di ricco e articolato ma di semplice ed efficace.
 

Il talento e l’attitudine resta il fulcro della questione, secondo me, e quello che fa andare avanti la tua strada. Qualsiasi genere musicale tu faccia, se hai talento metti insieme gli elementi e i suoni in un modo tale che il prodotto a cui arrivi è un altro mondo.

Fin dove la formazione può o deve spingersi e dove bisogna mollare le carte e fare?
Cosa consiglieresti a dei giovani appassionati?

Cominciare qualcosa di nuovo da zero nella musica è terribilmente frustrante, anche la chitarra sembra una cosa semplice ma non è così banale mettere delle dita su delle corde, è controintuitivo; è importante prendere lezioni e gli elementi di base, ma a un certo punto deve smettere perché se no farai fatica a uscire da quel che ti è familiare e che conosci già.

Le lische

Le Lische

Manuel Benati voce e chitarra Jacopo Panisi voce Liam Artoni tastiere Ivan Bussei batteria
Federico Bartoli basso Lorenzo Valla tromba Pietro Palmieri 
saxofono

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Le Lische sono un gruppo di giovani ragazzi di Reggio Emilia che suonano brani graffiti-pop, mischiati al rap e al pop. Con formazione ampia, tra voci, chitarra, basso, tastiere e fiati, scrivono pezzi inediti scritti interamente da loro.

Ragazzi, come avete iniziato a suonare?

Io ho ereditato  da mio padre la tradizione musicale e ho iniziato con 7 anni di lezioni di chitarra; però, è da quando ho smesso di andare a lezione ho iniziato a suonare! Tutti i giorni.
 

Mio padre è sempre stato molto appassionato di musica e mi ha sempre spronato a suonare, ma non ho mai iniziato a suonare fino alla prima media, quando ho incontrato il mio professore di musica e mi ha trasmesso la passione, nonostante il flauto dolce!
 

Anche mio padre ha sempre suonato il basso, fin da giovanissimo; sono cresciuto ascoltando la musica che ascoltava lui e ho iniziato a suonare il basso soprattutto per emulare lui, anche se preferivo cantare (da piccolo cantavo sempre a squarciagola!). Poi, alle medie, ho conosciuto un mio amico che mi ha fatto ascoltare nuovi generi musicali e da lì ho iniziato ad ascoltare e cercare gruppi e pezzi che piacessero a me.
 

Da “suoniamo per noi” a “qualcuno ci ascolta”: raccontateci del vostro primo concerto!

Era l’estate 2016, l’estate della prima superiore, a Correggio. Non si poteva andare tutti insieme, quindi eravamo solo noi due, Jacopo (voce) e Manuel (chitarra); abbiamo fatto cover  (Cat Stevens, Beatles…) e un pezzo nostro. Tensione e tanta emozione, aspettative per gli amici presenti; avevo già cantato in pubblico, ai saggi di fine anno di corso, ma questo era un concerto tutto nostro… ero tesissimo. Il primo pezzo è quello più difficile, poi parti.. e  quando applaude il pubblico è tutto più semplice. E soprattutto quella volta hanno applaudito durante la canzone (e non l’applauso obbligato alla fine – quello dà quasi fastidio. Il pubblico oggi applaude perché è finito il pezzo; questo fa arrabbiare…lo riconosci quando lo fa perché deve farlo e quando invece è davvero entusiasta e applaude a metà pezzo!).
 

Io non ho neanche guardato giù perché se no avrei visto che tutti mi stavano guardando! Cercavo sostegno dagli altri che avevano già suonato visto che per me era la prima volta.
 

Quando si è in tanti l’emozione è doppia, senti la carica e la tensione degli altri, la responsabilità di non dover sbagliare se no fai andare fuori anche loro. Ci si guarda, adesso, con più tranquillità.
 

E dopo, finito di suonare?

Abbiamo cercato il secondo concerto!

Perché avete cambiato il nome da Black Taste a Le Lische?

Come gruppo, abbiamo fatto un passaggio da cover americane e inglesi a cover e pezzi quasi esclusivamente in italiano (questo è dipeso dagli ascolti personali dei membri del gruppo che vanno verso l’indie pop - Willy il Peyote, Lo stato Sociale, Frah Quintale, che sono un po’ i nostri riferimenti). Abbiamo deciso quindi di trovare un nome italiano. Trovarlo è stato difficilissimo, ne abbiamo pensati tanti… fino a quando un amore di allora ci ha suggerito il nome, che è piaciuto a tutti perché lo sentivamo adatto al nostro genere e al nostro stile (rap, funk, ci hanno classificato come graffiti pop, indie..). Le Lische nascono a settembre 2018.

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Pensate che questa sia la vostra formazione definitiva?

No, non necessariamente; così come faccio fatica a rispondere quando ci chiedono a che genere apparteniamo allo stesso modo penso che per come siamo fatti tutto possa cambiare. Siamo aperti e in continua dinamica, sia come generi musicali di riferimento che come formazione: noi suoniamo un po’ di tutto e  la cosa più bella è che si mescolino tante sonorità diverse. Amiamo improvvisare e non ci interessa fare un genere specifico in particolare. Noi scriviamo musica; se ci piace, bene, quello è quel che conta.

Come avviene la genesi dei pezzi?

Solitamente è un processo che avviene in solitaria, ognuno coi suoi tempi (e io personalmente durante la creazione di un pezzo penso tantissimo a quali sono le sonorità che mancano nel repertorio.. è un «Vorrei un pezzo che suoni così...»). Dopodiché lo portiamo in sala prove, certo, e lo condividiamo con gli altri ma è raro che la creazione di un pezzo nuovo avvenga mentre si suona tutti insieme. Al momento siamo in due a scrivere; cerchiamo però di spronare anche gli altri a farlo.

Poi quando un pezzo funziona bene lo sentiamo subito, provandolo. Difficilmente stiamo lì a provarlo finché non diventa esattamente come volevamo!

L’ispirazione arriva; si va a momenti e lo senti quando è il momento giusto: sento un pieno e ho esigenza di buttare fuori. Spesso accade quando ho dei pensieri in testa e ho bisogno di metterli giù. Riuscirei a scrivere su commissione ma probabilmente non sarebbe pienamente soddisfacente.

A volte un pezzo nasce da poca emozione e molta tecnica; altre volte invece è tutta emozione, senti male dentro e hai bisogno di buttarla giù.

È difficile creare: la parola giusta che non sembra esserci mai; di solito scrivo di getto e non ci ritorno quasi mai sopra...questo è forse un difetto, ma quando lo faccio sono convinto di quello che scrivo.

Dopo aver scritto un testo lo tengo nel cassetto per qualche tempo; se quando la rileggo mi piace ancora, allora la propongo agli altri, se invece mi fa già schifo lo cestino!

Quali sono le tematiche che amate trattare?

Un tema che ci sta a cuore è sicuramente l’amore, di mia esperienza e non.

 

Il tempo che passa!

La protesta sociale (abbiamo fatto solo un pezzo per il momento, che si chiama Ateamente atei).

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Prospettive?

Abbiamo in programma di fare un EP; abbiamo in tasca, anche se non ancora ultimate o ultimate, tra i 20 e 30 pezzi. I miei genitori mi supportano in questa nostro progetto, non mi pressano e io non mi sento condizionato da loro, è una cosa mia. Però soprattutto mia mamma non vuole che io trascuri la scuola.

Scelte di vita: musica come passione ma anche come professione; cosa ne pensate?

La musica col gruppo è un rischio, decidere di investire tutto su quello è un rischio. Ma personalmente è la strada che voglio perseguire. Scelte e sacrifici fatti fino ad ora ci sono, anche nel mio piccolo. La musica è davanti a praticamente tutto.

Sì, metto la musica davanti a tutto.

Ho già rinunciato a uno sport per suonare; avere una vita privata e suonare è già tanto, bisogna scegliere.

Che rapporto avete con i social?

Quando suoniamo non facciamo dirette social; ci teniamo a comunicare quello che facciamo ma ci vogliamo sentire completamente lì, non postiamo tutto sui social. Capita che ci filmiamo durante i concerti ma lo facciamo più che altro per noi, per poterci riascoltare.

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Come vivete le critiche (dal pubblico o da altri gruppi)?

Le critiche servono; anche se danno fastidio. Bisogna distinguere le critiche fatte per via della differenza di genere musicale (che se non ti piace, non ti piace!) e quelle riguardanti l’esecuzione tecnica. In generale il nostro rapporto con le altre band è aperto.

È  importante comunque che siano costruttive, che ti dicano perché.

Quanto è importante avere un leader nel gruppo?

Non tanto, in realtà. C’è, ma è più dal punto di vista organizzativo (contatti, formalità…). Non c’è competizione e siamo amici.

Se foste una città che città sareste?

Roma: città calorosa, festiva, gialla.

Che stagione sareste?

Estate: amiamo stare rilassati e allegri.

Colore?

Rosso – come il calore di quando sei vivo.

Un solo aggettivo che vi descriva?

Diretti.

Se foste una canzone non vostra?

Ride dei Twenty One Pilots.

Sons of Other Suns

Sons of Other Suns

Gerardo Gianolio tromba Isabel Suárez sax Giovanni Pignedoli clarinetto Daniel Nardi trombone
Lucia Boiardi contrabbasso Giovanni Caffagni tastiere Marco Lazzaretti batteria Sofia González voce

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Rock/Progressive e Pop band straight outta Reggio Emilia.

Siete tanti! Come mai siete arrivati a 9?

Siamo una band di strumenti classici che però vuole andare sul pop-rock, quindi fare altri generi, diversi dalla musica classica. Non abbiamo una sezione ritmica con strumenti polifonici come la chitarra.

L’inizio di tutto è stato nel 2014, a fine estate; con l’inizio del conservatorio a ottobre è iniziata la stabilità delle prove e l’inizio della costruzione concreta del progetto. Sono entrate e uscite persone, ci sono stati tanti cambiamenti.
Quella attuale (iniziata nel 2017) è la formazione definitiva, anche se cambia sempre qualcosa... ad esempio il pianista fisso è entrato da una settimana!

Create canzoni?

Creiamo gli arrangiamenti dei nostri pezzi però facciamo per la maggior parte cover; prendiamo dei pezzi che ci piacciono e li trasformiamo nel nostro stile: cose che ci piacciono ma che sappiamo anche che funzionano. Alcuni pezzi invece li scriviamo da zero noi.

Come mai vi siete iscritti al Peri?

Tramite suggerimento di amici dei miei.
 

I miei genitori sono appassionati di musica e in particolare mia mamma è laureata in piano.

Io non ho parenti legati alla musica; mi sono appassionato inizialmente per via di un professore delle medie che mi aveva ispirato.

I miei sono molto appassionati di musica ma non di classica e non hanno mai suonato; mi sono iscritta perché da piccola alcune mie amiche avevano deciso di iscriversi e io ho provato.

Siete stati folgorati subito o all’inizio era solo un’attività come le altre, magari perché spinti dai genitori?

Nel mio caso ci è voluto un po’..non sono mai stato forzato davvero ma all’inizio era più che altro inerzia; a un certo punto invece mi sono proprio svegliato io, ho capito di essermi appassionato molto. Adesso sono i miei genitori a tirare indietro!

Soprattutto da quando è nato il gruppo e la possibilità di fare qualcosa di diverso è nata davvero la voglia di fare musica.

L’ho capito quasi subito; io facevo sport legati alla musica (tipo pattinaggio) e quando mi sono trovata a fare solamente musica ho capito che  quella era la parte di quegli sport che mi interessava davvero!

Cos’è la musica per voi?

Un modo per esprimerci, un modo di parlare di noi stessi con noi stessi.

Per me è una compagna, un amico che all’inizio fai fatica a conoscere e devi capire meglio come funziona; poi diventa come uno di quegli amici importanti che che poi non lasci più.

Per me significa poter ampliare le mie emozioni in un determinato momento, o rilassarmi; o godere del piacere che mi provoca, come un’estasi.

Per me è sentirsi parte di qualcosa di grande quando la vivo nella dimensione d’insieme, siamo tutti lì per fare la stessa cosa e sento che viviamo le stesse emozioni.

Credo che sia anche un mezzo che aiuta a capire tantissime cose; ad esempio il rispetto, l’ascolto degli altri, lo stare insieme; studiare musica da bambini dà qualcosa in più, ha una dimensione educativa e di conoscenza del mondo che ti fornisce un ulteriore punto di vista.

Potreste fare a meno della musica ora?

Non potrei più fare a meno della musica, del suonare intendo; ascoltare è scontato. È la più grande dipendenza della mia vita.

Se vai a sentire un concerto e quando torni a casa ti viene voglia di suonare non puoi non farlo.

È importante conoscere tutto; per decidere cosa è meglio per te bisogna conoscere, poi puoi scegliere cosa ti piace e cosa non. Anche per capire in che mondo vivi. E comunque i generi musicali cambiano durante le varie fasi della vita. Ad esempio dai Metallica si passa alla musica classica!

Un mio amico un giorno mi ha detto: «Dimmi il nome di alcuni compositori che ti piacciono così inizio ad ascoltarli anche io». Per me è stato bello, perché, anche se lui non sapeva nulla di musica classica, ha capito che conoscere tutto il panorama musicale è importante non solo noi che siamo nell’ambito.

Iniziate a sentire che preferite la dimensione di gruppo piuttosto che quella scolastica pura? C’è conflitto tra le due realtà?

Dipende molto dai professori, anche perché non è come un puro rapporto scolastico.

Secondo me ci devono essere entrambe, sia la vita del gruppo che la parte scolastica.

Le vostre aspettative?

Stiamo crescendo; non sappiamo dove vogliamo o possiamo arrivare; sappiamo che troveremo il modo per stare insieme e, anzi, far aumentare il nostro impegno.

Come siete riusciti a conciliare vita privata, amori, amici, interessi e hobbies altri e la musica?

I miei amici di solito vengono a vederci, mi supportano.

 Grandi rinunce per ora non ne ho fatte; c’è sempre stato abbastanza accordo. 

 Si sopravvive a scuola e si studia musica!

Io sono molto centrata anche sullo studio scolastico; punto a fare bene entrambe le cose. Mi rendo conto che magari non ho tanto spazio per la mia vita, come ad esempio sviluppare altri amici e interessi oltre la scuola, ma non ne sento neanche il bisogno perché questo è quello che voglio fare e che mi piace fare.

 Anzi, è stato potenziante fare entrambe le cose contemporaneamente!

Fate gruppo anche fuori dalle prove e dalla dinamica di gruppo?

Si, è capitato, soprattutto all’inizio.

Avete in previsione un disco?

Stiamo registrando da molto tempo in uno studio.

Fate cover, ma non solo; come nasce un pezzo vostro, visto che siete così tanti?

Nasce da un lavoro collettivo; chi lo compone, compone in base alla sua ispirazione, all’idea che ha, ma poi viene rielaborato collettivamente, la sua struttura, il modo in cui renderlo. Molte cose poi nascono nell’improvvisazione; e soprattutto, continuiamo a cambiare i pezzi, anche quelli che abbiamo fatto da anni; anche in base al riscontro del pubblico.

Pensate che quello che farete nella vita si concilierà con la musica e lei sarà sempre al primo posto o no?

Questo dobbiamo scoprirlo; già dal prossimo anno con l’università (molti di noi fanno la maturità quest’anno) cambieranno delle dinamiche, ognuno prenderà le sue strade più o meno “comode” al gruppo. Conciliare tutto con la musica sì, conciliare col gruppo è una cosa diversa; il gruppo per noi è una parte, e non il frutto, della nostra vita musicale. La musica invece è sopra a tutto.

Io voglio fare il musicista; sono bravo a fare solo quello.

A me piacerebbe essere prima ingegnere poi musicista; quella per me è la priorità assoluta, ma vorrei comunque conciliare tutto.

Luciano Bosi

Luciano Bosi

Percussionista, organologo, etnomusicologo e didatta

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Classe ‘58, è percussionista, etnomusicologo e didatta; racconta il mondo
e le sue ricchezze culturali attraverso gli strumenti a percussione, grazie
al progetto Quale percussione? da lui stesso ideato.

 

Dal 1981 conduce corsi e laboratori in Italia e all’estero

Cos'è per te la musica?

Per me la musica rappresenta soprattutto l’incontro tra culture diverse.
La musica esiste perché si incontrano e organizzano dei suoni. Io infatti, al posto della parola “musica”, utilizzo preferibilmente ​“suoni e silenzi​ organizzati”.
Se riusciamo a concepire la musica secondo questo concetto possono essere superati tutti i differenti codici culturali, che presi singolarmente rischiano di ingabbiare un concetto in realtà davvero aperto.

La musica non è un linguaggio universale, se così fosse, per esempio, potrei sedermi tra i componenti di un’orchestra balinese e sarei in grado di suonare immediatamente con gli altri, essendo io stesso un musicista.
Invece, nonostante io sia certamente capace di seguire il ritmo, non posso pensare di suonare in una “lingua” diversa, nel senso di dialogare con gli altri musicisti rispettando la loro modalità culturale di organizzare suoni e silenzi senza prima averli approfonditi.

Aggiungerei un’ulteriore riflessione. Noi occidentali usiamo la parola musica per descrivere un’azione specifica. Ci sono invece altre culture (per esempio in Africa, ma non solo) nelle quali il concetto che noi utilizziamo per concepire la musica comprende anche la parola e la danza, oltre al suono. Questo concetto viene quindi espresso utilizzando una parola che comprende insieme parola, danze e suono, senza distinzioni. Questa parola da noi non esiste.

Quindi capisci che la tua domanda richiederebbe una risposta ben più ampia.

Com'è entrata nella tua vita?

Poco alla volta. Il mio contesto familiare di origine era poco abbiente.
Ascoltavamo quello che trasmettevano alla radio e alla la tv, quest’ultima tra l’altro arrivata a casa mia solo quando avevo circa 8 anni. Perciò, da bambino, mi trovavo a tifare per Gianni Morandi in antitesi a Claudio Villa. Per passare poi a Battisti, i Pooh, la Formula Tre; a quattordici anni alternavo l’ascolto del Rock progressivo italiano a bands inglesi come The Who, i Led Zeppelin, ed altri.


I primi dischi sono riuscito a comprarli più tardi, con i soldi che avevo messo da parte.
 

Insomma, la musica, fino alla prima adolescenza, è sempre stata presente nella mia vita, ma marginale. Ricordo ancora i compiti con il mangiadischi in funzione permanente.
 

Alla scuola elementare non mi facevano cantare nel coro, perché ero (e sono tutt’ora) stonato, però mi facevano tenere il tempo con il triangolo o i legnetti, perché già allora il senso del ritmo mi apparteneva.
 

Quanto alle percussioni etniche, ricordo di aver visto qualche film con gli indiani pellerossa suonavano i loro tamburi. Peraltro nella cinematografia dell’epoca gli indiani suonavano i tamburi con le mani, mentre poi, studiando, mi sono accorto della superficialità con cui venivano trattate le altre culture: gli indiani d’america suonano i tamburi con dei battenti! In ogni caso mi avevano affascinato, tanto che in prima media mi sono costruito il mio primo tamburo usando una botte per l’aceto di mia nonna a cui avevo smontato la parte superiore di legno, per montarvi una pelle fatta con una tovaglia cerata. Il tamburo era diventato un oggetto rituale della mia società segreta, chiamata “Il triangolo stellato”, della quale naturalmente ero il capo.
 

A quattordici anni, per motivi familiari, ho dovuto interrompere la scuola. E’ una cosa che mi ha pesato davvero molto, perché studiare mi piaceva. In cambio però ho ottenuto da mia madre il via libera a suonare la batteria.

All’epoca compravo la rivista “Ciao2001”, che oltre alla sezione dedicata agli artisti del momento, proponeva anche notizie su artisti e festival alternativi. Ho così iniziato ad allargare i miei orizzonti musicali.
 

Va anche detto che all’epoca le feste dell’unità proponevano degli spettacoli musicali davvero unici, che aprivano la mente. Era infatti possibile assistere, per esempio, ad uno spettacolo di una compagnia di Tahiti proprio accanto alla zona del gnocco fritto e dei tortelloni! Ed era tutto gratuito! Oggi uno spettacolo del genere lo pagheremmo oro, e quindi probabilmente i fruitori non potrebbero che essere selezionati in partenza sulla base delle disponibilità economiche. Naturalmente in quegli anni ho anche partecipato all’Umbria Jazz, e ho potuto vedere all’opera dei gruppi fantastici.
 

Sono stato molto fortunato a crescere in un contesto culturale ricco e dinamico come quello che ha caratterizzato il nostro territorio negli anni ’70 e ’80 (e in parte anche in seguito), ed è davvero un peccato che le cose adesso siano così cambiate.
 

A 17 anni la passione per le percussioni e le musiche tradizionali era ormai conclamata.
 

In quegli anni ho cominciato a definire meglio quella che sarebbe stata la mia vita. Ho deciso quindi di cercare un nuovo lavoro, che corrispondesse meglio alle mie inclinazioni ed interessi.
 

Allora ho scelto di fare il giardiniere, che è un mestiere bellissimo.
Oltretutto, dal punto di vista filosofico, ti riporta da un lato alla concretezza delle cose vere, così come sono, e dall’altro di aiuta a sviluppare il pensiero creativo nell’immaginare come la tua opera potrà svilupparsi e prendere forma con il passare del tempo. Mi ha insegnato in pratica la pazienza, la costanza, e la consapevolezza che per ottenere dei risultati occorre saper aspettare, e superare l’idea del “tutto e subito”.

 

Dopo il servizio militare, nel ’79, ho cominciato a raccogliere i frutti del mio lavoro di ricerca personale. Ho iniziato a suonare stabilmente con un gruppo jazz, ho cominciato a prendere lezioni di batteria, e soprattutto ho concepito il progetto Quale Percussione? , sviluppando la mia intuizione che si potesse raccontare il mondo e la storia dei popoli e delle culture attraverso gli strumenti a percussione.
 

Nell’aprile del 1981, a Castelvetro di Modena, ho tenuto la prima mostra itinerante di percussioni al mondo! Ora lo posso proprio dire, anche se all’epoca non ero consapevole di essere stato il primo. Una delle peculiarità delle mie esposizioni è sempre stata, già da allora, l’interattività. Tutti gli strumenti musicali esposti vengono suonati, nulla è chiuso in una teca.
Il segreto è che gli strumenti vanno tenuti vivi!

 

Ho iniziato a lavorare nelle scuole elementari e negli asili già dal 1982, con laboratori per la costruzione di strumenti a percussione utilizzando materiali di recupero. A quell’epoca era una proposta ancora poco diffusa, soprattutto con il mio taglio antropologico ed etnografico, ma c’era già una certa sensibilità al tema da parte degli insegnanti e dei genitori. Anche questo è frutto del contesto culturale generativo delle nostre zone.
 

Insomma, le percussioni erano diventate ormai lo sfondo costante della mia vita, lavorativa e non. Lo stesso vale per lo studio dell’antropologia e dell’etnografia, che ho portato avanti da autodidatta, strettamente correlate all’organologia (l’ambito di ricerca che si occupa della storia e dello sviluppo degli strumenti musicali).

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Hai realizzato dei dischi o qualcosa di tuo?

Sì, ho fatto alcuni dischi, oltre a documenti audiovisivi con contenuto musicale, etnografico e pedagogico.

Ho scritto diversi libri, che spaziano da contenuti musicali ed etnografici a contenuti didattici.

Negli anni ho anche inciso diverse mie composizioni. Tra queste produzioni, nel 2008, ho inciso un disco completamente in acustico suonando le pietre sonore di Pinuccio Sciola, di cui vado particolarmente fiero.

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Quali rinunce hai fatto per la musica?

Io penso di essere un uomo fortunato, che può vivere di un sogno. Da bambino, pensando a quello che avrei fatto da grande, mi figuravo tre possibilità: il musicista, l’antropologo, e il giardiniere. Musicista lo sono, giardiniere lo sono stato, e per quanto riguarda l’antropologia, ritengo di avere acquisito sufficienti strumenti per poter rappresentare e far conoscere tutte le culture del mondo, e le loro storie, attraverso gli strumenti a percussione.

Cosa pensi delle nuove generazioni di musicisti e quali consigli daresti a chi oggi decide di iniziare a fare musica?

Penso che siano bravissimi: riescono a fare delle cose dal punto di vista tecnico che sono mostruose. Il problema vero è che suonano tutti uguali, nello stesso modo!

Oggi avremmo bisogno di qualcosa di nuovo, uno stile nuovo. Abbiamo bisogno che i giovani musicisti esprimano la loro personale visione, qualcosa di davvero originale e unico. Le composizioni partono sì dalla testa, ma devono poi scendere fino alle mani, alla pancia, al cuore! La gente ha bisogno di fare (e ascoltare) cose vere. E forse i giovani oggi hanno troppa paura di mettersi in gioco davvero, e mostrare cosa hanno dentro.

E un’altra cosa, ragazzi: leggete, leggete, leggete! Io da giovane facevo fatica a trovare dei materiali interessanti, invece adesso su internet si trova di tutto. Ma attenzione: anche le informazioni che si trovano su internet (anche quando sono corrette, e spesso non lo sono) sono superficiali. La rete è uno strumento utilissimo per trovare spunti per successivi approfondimenti, ma non può sostituire lo studio di testi specifici! E solo lo studio ci permette di acquisire davvero nuove competenze, di interiorizzarle davvero, così da poterle rielaborare secondo il nostro personalissimo sentire.

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Il Ritmo della Terra è la lezione-concerto che Luciano Bosi porta in giro da più di trent'anni, rinnovandola ogni volta con nuovi strumenti, conoscenze e aneddoti.

Un viaggio che, principalmente attraverso gli strumenti a percussione, mostra quanto le civiltà siano accomunate da suoni, rumori e silenzi e che "quell'atavico pulsare è già parte di noi, sopito nel profondo, solo in attesa di essere richiamato in vita".

Dopo la recente edizione a SD Factory e per la prima volta in live streaming, abbiamo chiesto all'etnomusicologo un resoconto di questa esperienza, le sue possibili evoluzioni e i futuri progetti musicali. 

Il Ritmo della Terra, cos'è, cos'è statoLuciano Bosi
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Futuro de Il Ritmo della TerraLuciano Bosi
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Luciano Bosi e i progetti futuriLuciano Bosi
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Michelle Cristofori

Michelle Cristofori

Quarantadue anni, lavoratrice, mamma, batterista, cantante e fondatrice del collettivo Mâtilde Orchestra

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Com'è entrata la musica nella tua vita?

In famiglia ho sempre ascoltato musica fin da bambina. Mi piaceva molto la danza classica e il mio passatempo preferito era ballare ascoltando vinili di musica classica che mio padre mi comprava (il Bolero di Ravel, Il lago dei cigni, ed esempio), era molto liberatorio.

I miei erano molto cattolici: ho sempre cantato volentieri in chiesa assieme agli altri e ripensandoci sono state le mie prime occasioni di percezione dell’energia della voce e di sperimentare la condivisione di questa forza con altri esseri umani.

Tutti i fratelli di mia mamma sono percussionisti in bande di paese, ma non lego la mia passione musicale a loro in quanto, essendo donna e nonostante sia una batterista, con me non hanno mai avuto troppo piacere anche solo a parlarne.

I primi ascolti di musica più “moderna” sono stati grazie a mia sorella maggiore, che da adolescente ne ascoltava tanta; in particolare grazie agli scambi con mia cugina e gli amici e per merito di programmi televisivi belli come quelli che anni fa potevo guardare (ad esempio su Videomusic).

Ripensando alla mia infanzia credo che quello che mi abbia più influenzato e contribuito a creare la mia personalità di musicista sia stato mio padre: era un grande raccontatore di favole e di storie e, a mia volta, raccontare storie è quello che faccio.

La musica l’ho sempre vissuta così, come un racconto. Non per niente il mio insegnante di danza diceva che per me la musica non era uno mero strumento per ballare...Ero distratta, mi perdevo, per me la musica era di più. La musica ti racconta sempre una storia, al di là del fatto che ci sia un testo: in un brano, ci sono paesaggi, atmosfere, imprevisti e personaggi che con le loro emozioni lo popolano e lo fanno vivere. Ti viene voglia di vedere cosa succede dopo, capire i personaggi. La musica per me ha questa dimensione narrativa ed è molto visiva.

Cos'è per te la musica?

Ho sempre avuto la percezione che fosse prima di tutto una grande amica con cui stare in ogni momento, da quelli più gioiosi e socievoli a quelli più intimi e introspettivi. L’ho sempre vista come strumento di condivisione, espressione, libertà ed espansione dell’essere. E’ per me anche un modo per dire: “Eccomi, sono qui, esisto anche io, vedetemi!”. 

La musica è movimento, cambiamento.

In certi periodi della mia vita l’ho percepita  come mera via di fuga dalla realtà; più invecchio maggiore è la percezione, sempre più nitida, che mi sia necessaria per scoprire davvero chi sono: quando canto, suono, entro in contatto con la vera me stessa, mi sento al posto giusto, mi ritrovo e allo stesso tempo mi percepisco infinita; questo a prescindere dall’avere successo o no come musicista. 

La vedi più come dimensione intima o sociale?

Entrambe le cose. Ascolto musica in cuffia quando ho bisogno di raccoglimento, quando sono melanconica o semplicemente concentrata su qualcosa ma, per carattere, è molto presente in me la dimensione sociale; è scambio, condivisione: con le Matilde viviamo proprio questa dimensione.

Come siete arrivate alla Mâtilde Orchestra?

Sono nate due anni fa, da una mia iniziativa. Credo di avere una capacità utile di sublimazione: nei momenti difficili in cui le cose vanno a rotoli la mia vena artistica mi da una mano, e creo qualcosa per resistere e andare avanti.

Ero in un momento di vita molto difficile, di cambiamenti complessi; per reagire mi sono data da fare e mi è venuta voglia di realizzare un evento bello come i concerti della ARZÂN! Orchestra, di cui faccio parte, che coinvolgesse tutte le donne musiciste che conoscevo: tantissime ma sempre un po’ lasciate da parte o penalizzate; questo mi dispiaceva, non mi sembrava giusto e volevo fare qualcosa.

È iniziato tutto quasi per gioco, era previsto un unico concerto in provincia in un piccolo locale ma, dopo quel concerto, è scattato qualcosa, si è accesa una fiamma: molte delle partecipanti si sono caricate, hanno portato altre musiciste, alcune hanno ricominciato a suonare più costantemente, altre hanno messo su progetti nuovi insieme, tutte abbiamo trovato nuove amiche, appoggio, energia e bellezza e scoperto quanto sia meravigliosa, seppur complessa, l'interdipendenza.

Parlaci delle tue canzoni...

Come ho già detto le mie canzoni sono storie. In esse metto molto di me e del mio vissuto, anche famigliare; ci sono i miei sogni e le mie emozioni, comprese le mie sofferenze.

Sono contenta di aver trasformato le mie insicurezze e il dolore in arte.

In realtà nei miei pezzi credo ci siano anche molta ironia e sarcasmo. Questa mia modalità di sublimazione non implica che io sia una persona che sostiene che per creare sia necessario per forza soffrire; non sono d’accordo con questa idea e una donna speciale delle Mâtilde me l’ha fatto comprendere ancora più chiaramente: vuoi mettere quanto ti insegnano e quanto cresci attraverso i momenti felici e gioiosi, quando ti senti amato e sostenuto?

Nelle prossime canzoni che scriverò spero di riuscire a fare emergere proprio la bellezza della capacità di sostenersi e sostenere, di darsi da fare, di costruire e di creare positività.

Come nell’ascolto anche il mio modo di scrivere i testi è visivo; pertanto, il racconto non è sempre diretto ma più evocativo e onirico.

Spesso mi chiedono se non sia un limite il fatto che non sia chiaro quello che voglio raccontare.

Per me ogni canzone è un atto di generosità; la si scrive per noi stessi ( e lo fai per te stesso perché ne hai esigenza) ma una volta che l’hai creata non è più solo tua, l’hai donata e chi l’ascolta può farci quello che vuole.

Per questo, non mi preoccupa il fatto che possa venire attribuito un senso diverso a quello che le ho dato io: una canzone comunica ugualmente, ognuno la riceve a suo modo. 

Sono una grande amante delle parole, del simbolismo e credo che non per forza sia necessario articolarle in frasi complesse; le parole, anche singolarmente, hanno una forza evocativa e comunicativa importante.

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Quando hai capito che la musica non era solo una passione ma qualcosa ancora di più, in cui investire tanto tempo ed energie?

Ogni volta che suono, in particolare ogni volta che canto.
Ogni volta che lo faccio sento di fare una cosa che davvero mi appartiene.

Non “vivo” economicamente di musica; ammiro chi decide e ha il coraggio di  fare “di più”, magari anche ragionando in termini commerciali, sono scelte che io non ho potuto o non ho voluto prendere ma sono comunque soddisfatta per i frutti di questa mia grande passione.

Vedere ad esempio tutto quello che abbiamo realizzato con Mâtilde, quanto è nato da questo lavoro, in termini di collaborazioni, concerti, progetti paralleli, sperimentazioni e idee.

Anche solo quando dopo i concerti qualcuno si complimenta o ti ringrazia per un’emozione è davvero bello e gratificante.

Un concerto che ricordi come particolarmente importante?

Di sicuro ci sono delle cose che devi trascurare perché di tutto non ti puoi occupare. 

A volte rinunci semplicemente a riposarti: è faticoso, dopo una giornata di lavoro, andare a provare o a registrare e passarci anche tutto il weekend a registrare, oppure caricare la macchina con la batteria e con mille altre cose e poi di nuovo scaricarla per un live e via di seguito al ritorno.

Tuttavia, mi ritengo fortunata, non ho mai dovuto fare grosse rinunce e ho sempre fatto quello che volevo, anche quando mia figlia era più piccola, cercando di “incastrare” tutto.

Qualche rinuncia ha riguardato lei; a volte alle prove o ai live vai lo stesso anche se lei ti vorrebbe a casa quella sera ma credo sia stato giusto farle capire che le cose vanno costruite e gli impegni rispettati anche se qualche senso di colpa è stato inevitabile.

Se c’è stato un prezzo da pagare forse riguarda di più i sensi di colpa che in tanti cercano di farti venire; il musicista non è socialmente compreso; in tanti vedono questa passione di suonare come una cosa sciocca e frivola.. figurati una mamma musicista che lascia a casa sua figlia per andare a provare o a fare concerti..

Comunque non sono mai riusciti a farmi venire dubbi; per me suonare è proprio un’esigenza oltre che bellissimo.

Solo un dettaglio: quando non cerco musica vuol dire che qualcosa davvero non va: è come un termometro!

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Più che fare la differenza, è differente; non porta vantaggi, come alcuni si aspettano, anzi.

Sono stata fortunata perché ho molti amici musicisti maschi che non mi hanno mai fatto pesare il fatto di essere femmina, anzi mi hanno sempre sostenuta e valorizzata; certo è che quando inizi a suonare in giro, fuori dalla zona confort, le differenze le vedi eccome.

A volte sono cose sottili legate all’atteggiamento, le classiche sono che le band al femminile sono sempre il primo gruppo ad aprire i festival, spesso quelle alle quali viene assegnato il posto più sfigato e il tempo minore di esibizione.

Poi potremmo parlare ore di quanto la donna, soprattutto in questi ambienti legati all’immagine, e fare musica spesso lo è, non si possa permettere di essere meno bella, meno in forma e semplicemente di invecchiare.. e se ci fate caso, anche a livelli più “alti”, semplicemente leggendo una rivista musicale, quanto sia più facile che il lavoro di un’artista venga svilito con la mera descrizione del suo look sul palco piuttosto che della sua performance.

Quello che però mi infastidisce di più è che la donna, e non solo nell’ambiente musicale, per farsi rispettare e apprezzare deve sempre fare e dimostrare di più, non si può permettere di sbagliare e non le è mai dovuto niente come se la natura l’avesse dotata di un ruolo subordinato e di cura incondizionata per tutto e tutti e ciò nonostante sia considerata dotata di abilità comunque inferiori a quelle degli uomini.

Per capirci..se sei un uomo e suoni male un live può capitare, nulla di strano, forse non eri in forma o non ti eri preparato abbastanza; per la donna invece non è così: se suoni male un live accade in quanto sei una donna; quando la serata va bene ti senti dire “non male per essere una donna”...cosa c’entra l’essere femmina con tutto questo?

Per fortuna non tutti sono così ma quando mi rendo conto che sono per prime delle donne a sentirsi davvero inferiori e accettano di essere sminuite senza motivo, mi arrabbio molto.

Credo che l’attuale momento storico non sia dei più favorevoli; si percepisce una forte tendenza a voler ristabilire certe gerarchie di ruoli, che si credevano superate ma molto sostenute dall’attuale politica e, pertanto, chi come me suona in Mâtilde o si riunisce con altre donne, si confronta e inizia a chiedere spazio e attenzione da molto fastidio. 

Dal punto di vista sociale, come ho già un po’ detto.. se avessi fatto decoupage a casa o zumba in palestra sarei stata socialmente più accettata..ma credo che una donna, come ogni essere umano, abbia bisogno di essere semplicemente quello che è. 

Tutti i colori, è una tavolozza in continuo movimento; ha tante voci e ogni voce ha il suo colore.

In questo anno e mezzo, nonostante lo stop forzato e le difficoltà, la Mâtilde Orchestra non si è del tutto fermata. Il collettivo, come aveva già fatto durante il primo lockdown con "Call Me Mâtilde", nei mesi scorsi ha lanciato il progetto collettivo "Mâtildoska", ben raccontato nell'intervista che trovate qui.

Una open call for artists aperta a tutt* che mira a raccogliere contributi artistici e a metterli in circolo all'interno del circuito dei partecipanti per essere modificati, integrati, rivisitati.

Un esempio? Eccolo:

Quando hai capito che la musica non era solo una passione ma qualcosa ancora di più, in cui investire tanto tempo ed energie?

Ogni volta che suono, in particolare ogni volta che canto.
Ogni volta che lo faccio sento di fare una cosa che davvero mi appartiene.

Non “vivo” economicamente di musica; ammiro chi decide e ha il coraggio di  fare “di più”, magari anche ragionando in termini commerciali, sono scelte che io non ho potuto o non ho voluto prendere ma sono comunque soddisfatta per i frutti di questa mia grande passione.

Vedere ad esempio tutto quello che abbiamo realizzato con Mâtilde, quanto è nato da questo lavoro, in termini di collaborazioni, concerti, progetti paralleli, sperimentazioni e idee.

Anche solo quando dopo i concerti qualcuno si complimenta o ti ringrazia per un’emozione è davvero bello e gratificante.

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Uno dei concerti che mi è piaciuto di più tra i concerti fatti di recente è quello della mia band Micromouse in Ghirba:  questo locale ha un ambiente davvero ideale per noi musicisti; la gente che lo frequenta è sensibile e curiosa, viene lì proprio per ascoltare la musica dal vivo.

 

Con queste condizioni è anche più facile creare una connessione, per vivere un’esperienza autentica e intensa . Sono situazioni in cui senti che quello che fai è sincero e ha un enorme valore.

Fai molte rinunce per
la musica?

Il fatto di essere donna ha fatto la differenza?

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Di recente mi è capitato un episodio spiacevole con Le Mâtilde: in un locale sono stata avvicinata da un uomo che per conoscermi ha prima voluto sapere se, in quanto capo delle Mâtilde, fossi lesbica; so che la stessa cosa è capitata ad un’altra ragazza del collettivo e tralascio altri episodi ben più spiacevoli sull’argomento.

Intendiamoci il problema non era chiaramente il fatto di essere “etichettata” come tale; Mâtilde è e sostiene attivamente la differenza di genere.

Sostanzialmente quello che mi stava dicendo questa persona era che se sei una donna che fa parte di un collettivo di donne che fanno una cosa insolita, un po’ rivoluzionaria, non è possibile che tu sia una donna “normale”, “come le altre (quelle che vorrebbe lui)”, non puoi essere una madre, eterosessuale o uno dei tanti stereotipi nei quali la società ha bisogno di inquadrarti.

È proprio questa la prima cosa da chiedere quando incontri una persona? I suoi gusti sessuali?

Queste dinamiche stupide di stereotipi e di attacchi alle persone accadono di frequente e ne siamo tutte vittime direttamente o indirettamente. 

Personalmente certi miei pregiudizi li ho proprio affrontati e superati grazie a Mâtilde.

C’è bisogno di più rispetto in generale e di un grande impegno culturale da parte di tutti noi.

Che colore ha la musica?

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PASTICCINI


Li ricordo ancora
Dolci sulla lingua
Quella tua
Per farmi impazzire e
Sputarmi addosso
Frigida


Frigida...


Com’è che quei
Pasticcini
Li ricordo ancora?

Non possiamo spoilerarvi nulla, ma ci sono altri progetti interessanti in corso, altri in fase embrionale, e non vediamo l'ora di poterli vedere conclusi.

Un periodo di raccoglimento, di sospensione, ma che non ha intaccato il flusso creativo della Mâtilde Orchestra.

Mara redeghieri

Mara Redeghieri

Ha spaziato tra la tradizione popolare e la sperimentazione elettronica, il pop e l'underground, sempre con grande curiosità ed entusiasmo. Ex-voce degli Üstmamò, Mara Redeghieri ha una personalità esplosiva. E recidiva.

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Cos'è la musica per te?

La musica fatta da me l'ho incontrata tardi, a trent'anni ed in maniera casuale. Rappresenta un mondo parallelo ed incantato che sussurra e suggerisce all’orecchio altri punti di vista, altre possibilità, lontane mille miglia dal vissuto quotidiano.

A trent'anni? Come è successo?

Ad una piccola festa della birra, in montagna, ho assistito ad uno dei primi live degli Üstmamò e sono rimasta colpita dal loro modo di suonare, molto innocente, innovativo, lontano mille miglia da percorsi commerciali o modaioli.

Dopo poco tempo, venuta a sapere che sono in cerca di voci femminili, mi propongo in maniera del tutto sperimentale, per curiosità e stima di quello che stavano facendo, e perché li trovavo straordinariamente simpatici, vitali.

Ma tu cantavi già?

Non precisamente, e soprattutto non avevo mai pensato ad entrare in un gruppo musicale.

Incredibile... Però avevi consapevolezza delle
tue capacità, giusto?

Canticchiavo come possono fare tanti, amavo la musica assieme ai miei amici, la seguivo attentamente. Appena laureata a Bologna in Lingue e Letterature Straniere torno in Appennino un po’ affannata, e l’idea di una nuova avventura con questi giovani musicisti montanari mi intriga e ossigena parecchio.

La laurea tanto agognata dai miei genitori, mi permetterà poi una sussistenza stabile, con l’insegnamento della lingua inglese.

La musica dunque non ti serve
per vivere, perché pensi che sia importante questo fattore?

Guai se le mie passioni artistiche si dovessero trasformare in affare economico, ho assoluto bisogno dei miei tempi che sono lenti e spesso vuoti.

I tempi commerciali, le scadenze i singoli da far uscire al momento opportuno mi devastano e costringono al silenzio, prediligo e cerco di proteggere un rapporto viscerale e profondamente emotivo con le note.

A proposito di emozioni, parlaci
di quelle che hai provato, se e come sono cambiate con il tempo

L’emozione dei live è sempre fortissima, salire sul un palco è come tuffarsi dal paracadute, volare in deltaplano sui boschi, scendere a cento metri nel mare trasparente. Poi ci sono le prove, i primi accenni di buone melodie, gli sguardi disperati e ansiosi di qualcosa che non gira a modo, la meraviglia di riuscire finalmente ad entrare in studio e registrare con quei microfoni stellari!

Libera dal malessere della noia, dalle giornate bigie che non vogliono finire, dalle delusioni amare . E molta emozione mi procura sentire la voce amplificata che si libra nell’aria mescolata alle melodie . Non è come parlare, cantare è un modo di comunicare che assomiglia un po' al canto degli uccelli.

Attraverso le note della voce si arriva ad un contatto intimo, primitivo , viscerale.

È una specie di appello, di richiesta di attenzione massima.

Mi piacciono inoltre tutte le forme della musica contemporanea e le mille variazioni e possibilità che la tecnologia mette a disposizione.

Hai mai studiato la musica
e il canto?

Non sono mai riuscita, la tecnica mi spaventa. So che è molto importante infatti in diverse occasioni ho dimostrato di non avere i mezzi ne’ la padronanza per sopportare la situazione, ma sul palco l’emozione mi travolge e dimentico subito dove e quando respirare ed usare il diaframma.

La musica ti ha cambiato come persona?

Indubbiamente, mi ha permesso di approfondire una parte importante parte di me, di inventare e segnare un percorso di crescita individuale e di collaborazioni con musicisti e professionisti della musica che hanno reso questa esperienza unica.

La mia professione di insegnante spesso mi tarpa le ali, mi costringe in poco spazio. La musica mi lascia respirare. Il pubblico mi applaude e mi apprezza.

Il mio ego vola alto, soddisfatto e ripagato.

Assorbita nel vero lavoro di squadra, con collaborazioni che chiedono condivisione, ascolto muto e rispettoso, rinuncia delle proprie ferree convinzioni.

Anche quando tutto finisce, perché le cose cambiano si trasformano,

si ripresentano. Spesso mi chiedo come sarei stata se non avessi avuto questa preziosa occasione.

Che consigli ti senti di dare a chi
si approccia oggi alla musica?

Meno Cover, meno scimmiottamenti Americani, meno Rap.
 

Viva le composizioni nuove, le melodie azzardate, le parole scritte di fresco e cantate con le note del pentagramma Cuore Emozione Disperazione Gioia.

Adoro i musicisti innamorati dei loro strumenti, autodidatti o freschi di conservatorio, che sperimentano, amano, approfondiscono, coltivano.

La musica pretende attenzione e cura, come una relazione tra persone.

Quante strade ha la musica?

Infinite. Per quello che riguarda la mia esperienza dall'elettro pop alle canzoni popolari e anarchiche. In ognuna di queste ho sudato ed approfondito il mio percorso individuale, sempre cercando di tenere a mente cosa fosse più importante raccontare, descrivere.

Come si scrive una canzone?

In vari modi. All’inizio le miriadi di composizioni musicali degli Üstmamò mi hanno ispirata parecchio, le mie parole scaturivano dalle emozioni ispirate dalle loro note Altre volte il cervello canta e suona fischia mentre dormo, quindi mi sveglio e scrivo di getto . Scrivo ovunque, anche sui biglietti dell’autobus, quando ho una sensazione che vaga, la devo fissare.

Vagoni di parole e frasi in libertà più avanti diventeranno una canzone. A parte certe rare illuminazioni, il tutto avviene molto lentamente, goccia dopo goccia in una stratificazione stalattitica.

 

Nel mio ultimo disco RECIDIVA c'è ‘Cupamente’ una canzone nata quattordici anni fa, che attraverso variegate stesure ha trovato col tempo forma e dimensione.

Nicola Bonacini

Nicola Bonacini

Tecnico informatico, ma soprattutto bassista, Nicola Bonacini ha militato in diverse formazioni, tra cui i Caravane De Ville, per poi finire al fianco, in forma stabile, del progetto con Mara Redeghieri. Quando ha capito di amare il basso, si è buttato a capofitto nello studio della tecnica, senza mai smettere.

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Cos'è la musica per te?

Bella domanda...Anni fa ti avrei detto una passione. Oggi ti dico che è un'esigenza. Nel senso che una passione può anche essere giocare a calcetto, ma se non lo faccio per un po' di tempo non succede nulla. Quando invece una cosa fa proprio parte di te e hai fatto dei sacrifici per continuarla a fare, diventa davvero un'esigenza. E non solo perché, come nel mio caso, diventa parte del tuo lavoro, ma soprattutto perché hai bisogno di fare e hai bisogno di dire.

Partiamo da quando la musica era una passione: com’è stata la chiamata?

La chiamata è stata avere una tastierina a casa che usava mio fratello e io a cinque anni ci mettevo le mani. Poi ho cominciato a prendere qualche lezione. Poi da più grande volevo suonare in un gruppo, e in un gruppo cercavano un bassista, e allora mi sono messo a suonare il basso elettrico, e anche quello era già a casa mia. Poi mi sono reso conto che dovevo studiarlo bene questo strumento, quindi mi sono iscritto ad una scuola di Milano, il CPM, e l'ho frequentato per tre anni, un giorno a settimana. È una scuola che forma i turnisti e quindi ti insegna a suonare tutti i generi. Devo anche dire che oltre alla tastierina di mio fratello probabilmente sono servite anche le canzoni che mi faceva ascoltare mio padre, che amava i cantautori come De Gregori. E ricordo che per calmarmi mi metteva su Bach...

E le prime esperienze dopo la scuola milanese?

Avevo più di vent'anni e sono entrato nei Caravane de Ville, un gruppo fondato da Giovanni Rubbiani che veniva dai Modena City Ramblers, con sette elementi, abbiamo fatto due dischi.

Quindi possiamo dire che la professione è cominciata lì?

Sì, nel senso che io lavoravo a tempo pieno come tecnico informatico e facevo fatica a conciliare i vari impegni, non avevo abbastanza permessi e ferie. Quindi c'era da fare una scelta, e io ho scelto la musica. Nei Caravane ho suonato per cinque anni.

È stata una scelta difficile lasciare un posto fisso per una passione?

No, nel senso che ero abbastanza tranquillo, nel senso che in quegli anni, era il 2001, a Reggio di lavoro ce n'era e quindi pensai che avrei potuto tranquillamente tornare sui miei passi anche dopo. Comunque non ho mollato tutto perché ho aperto partita iva e mi gestisco in proprio la professione di tecnico informatico. È stata comunque una scelta ponderata, non un salto nel buio. Mi sono subito iscritto al conservatorio di Reggio per studiare contrabbasso, ho cominciato a frequentare dei workshop di Jazz e musica etnica per formarmi il più possibile. Insomma, avevo le idee chiare su quello che volevo fare e volevo farlo nel miglior modo possibile.

Hai mai avuto momenti di ripensamento?

No, se non avessi fatto quelle scelte ne avrei fatte delle altre ma sono sicuro che sarebbero state sempre in prospettiva musicale.

Prima parlavi di sacrifici, cosa intendi precisamente?

Suonando ti capita di lavorare molto di più d'estate e nei fine settimana, e questo vuol dire rinunciare a molta della tua vita privata, per esempio organizzare le ferie con la tua ragazza o con gli amici. Noi, i Caravane de Ville, chiedevamo agli organizzatori della tournée di trovare le date nel periodo nel quale la maggior parte dei componenti poteva andare in ferie, altrimenti diventava complicato. Bastava che mancasse uno di noi per far saltare tutto.

Certo che chi suona molto ha poco tempo per sé, soprattutto i week end. Io una volta avevo già i biglietti per un concerto dei Radiohead, ma poi è spuntata una data per un nostro concerto e addio.. Non so quanto tempo è che non vado ad un concerto!

Torniamo un attimo agli inizi, da ragazzino vivevi la musica come un sogno o avevi già chiara la tua vocazione per il futuro?

Da ragazzini sognavamo di diventare come quei musicisti di quei gruppi che ascoltavamo. Il gruppetto era come una famiglia, ci si trovava tutti i giorni sempre con delle idee nuove, chi portava un testo, chi una linea melodica; era entusiasmante vivere così, avevamo sedici anni e tutto era possibile! L'importante era suonare. Io, per esempio, da giovane ho sempre avuto almeno due gruppi contemporaneamente, anche perché i bassisti erano sempre molto richiesti.

Proponevate cover o musica vostra ?

Solo musica fatta da noi. A quei tempi, parlo degli anni ‘90, si pensava che fare cover ti limitasse la creatività, cosa che non so quanto corrisponda al vero, ma pensavamo così. Quindi era quasi impossibile trovare cover band. Quelle sarebbero poi nate dopo, cover e tribute band.

Per noi era normale quasi quotidianamente scrivere musica nuova.

Come si scrivono le canzoni? O meglio, come le scrivi tu?

Io ho sempre scritto solo musica, e arrangiamenti. Da giovane buttavo giù gli accordi e facevo proprio la canzone, con anche la linea melodica. Adesso invece, visto che si lavora insieme ad altri, lavoro più a cellule, butto giù delle micro idee, che possono anche essere degli strumenti finti che poi non ritrovi, o delle melodie che poi non servono più e che puoi togliere perché hanno stimolato nuovi strumenti o altre linee melodiche, quindi principalmente produco queste cellule di un minuto o due poi le faccio sentire a cantanti, o colleghi musicisti. Questi a loro volta aggiungono quello che viene a loro. Praticamente la canzone è frutto di una collaborazione step by step. Ovvio che per fare cose buone bisogna avere sintonia tra le persone che partecipano alla costruzione delle canzoni.

Ti ricordi il tuo primo concerto?

Ricordo che suonai l'armonica a bocca!

Cioè, pur di andare su un palco eri disposto a suonare qualsiasi strumento!

Avevo 14 anni, mio fratello aveva un gruppo rock-blues, e io con le mani che tremavano andai sul palco a suonare due canzoni, al Be-Bop di via Pansa, un luogo mitico per quelli della mia generazione. Allora c'erano tanti locali dove potevi suonare, sperimentare, la gente era curiosa di ascoltare i gruppi emergenti. Adesso è molto difficile per i giovani trovare locali che fanno musica dal vivo, e se ci sono ti chiedono le cover. E da lì secondo me si è poi arrivati al genere Karaoke.

Com'era il pubblico in quegli anni?

Ma guarda, come dicevo prima, secondo me c'era più curiosità. Oggi, la gente vuole la certezza di sapere cosa ascolterà, per questo vanno molto le tribute band. Ricordo, invece, che quando suonava un gruppo da qualche parte gli altri gruppi del panorama andavano ad ascoltare, anche per confrontarsi, per vedere come gli altri scrivevano le canzoni. C'era una bella collaborazione tra i band, se uno trovava una data capitava che chiamava altri gruppi per dividere la serata e magari suonare qualcosa insieme. Anche perché si suonava per un panino ed una birra.

Ricordi la prima volta che il panino e la birra lasciarono il posto a qualche soldo?

Certo! Avevo credo 17 anni, eravamo al Mondrian, il locale di viale Ramazzini che poi diventò il Lokomotiv e poi il Maffia. Ci diedero trentamila lire a testa.. Quando tornammo nella nostra sala prove buttammo i soldi in aria per farceli cadere in testa, come se fossero milioni! Fu una bella soddisfazione...È comunque anche dopo, i guadagni che arrivavano servivano come fondo cassa per comprare i pezzi di ricambio della strumentazione, o per pagare l'affitto della sala prove, o per fare i CD da vendere ai concerti.

Cosa consiglieresti ad un giovane che sta per cominciare a suonare?

Prima cosa, studiare bene il proprio strumento, poi sperimentare generi diversi per aprire il ventaglio delle possibilità e per crescere come capacità. Mi piace chi propone la propria musica perchè quella è sempre stata la mia strada ma non sono contrario alle cover. Una cosa che non mi è mai piaciuta è l'utilizzo delle basi. Capisco che con la crisi dei cachet si debba a volte suonare in pochi, ma credo che sia più bello suonare magari con arrangiamenti più scarni o si può utilizzare le loop station che ti danno la possibilità di riempire meglio il tutto, però lo fai tu in diretta. La base invece ti vincola molto, non ti lascia lo spazio per dei soli che vorresti e potresti e dovresti fare dal vivo.

Tu nel tempo hai suonato e fatto parte di gruppi professionisti o semi-professionisti; a differenza di quando eri giovane le emozioni dei live sono cambiate?

Da certi punti di vista si, però la soddisfazione di fare ascoltare le tue opere è sempre la stessa. Anzi, a volte è una liberazione! Nel senso che ci si mette talmente tanto tempo per produrre qualcosa che quando la proponi per la prima volta ti senti finalmente più leggero!

A quale colore associ la musica?

Direi al verde.

E a quale stagione?

Alla primavera. Anche se le composizioni vengono meglio in autunno ed in inverno.

Lorenzo Valdesalici

Lorenzo Valdesalici

Inizia a studiare musica in Appennino Reggiano; si diploma in chitarra classica al conservatorio "Achille Peri" di Reggio Emilia, poi naufraga nella musica elettronica, nella produzione musicale e nella composizione per orchestra. Collabora alle produzioni di diversi artisti da svariati anni, tra cui Mara Redeghieri e Tiziano Bianchi. Si diploma in "Composizione di musica per film" al conservatorio "G.B. Martini" di Bologna.

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Foto di Andrea Herman

Come ti sei approcciato alla musica? Qual è stato il vostro primo contatto, anche indiretto?

Il primissimo contatto con la musica è stato grazie ai miei genitori che me ne facevano ascoltare parecchia. Ho sempre avuto la casa piena di cd quindi - anche per caso - ci arrivi. Ricordo anche il mio primo approccio al suonare: io che mettevo su il disco dei Beatles, sempre lo stesso disco, prendevo le padelle di mia madre con due bacchette e suonavo le padelle. Questa è stata la primissima cosa che ho fatto. Naturalmente ho spaccato un sacco di roba, ma i miei mi hanno lasciato fare, sono stati bravi.

E come è stata l’evoluzione?

Intanto devo dirvi che ho vissuto fino a diciott’anni in Appennino, che miracolosamente contiene delle scuole di musica. I miei hanno deciso di iscrivere sia me che mia sorella a una di queste scuole comunali (quella di Villa Minozzo) e io, quando è stato il momento di scegliere lo strumento, ho scelto, non so perché, la chitarra. Da lì ho sempre continuato a studiare: sono stato al Merulo a Castelnuovo ne’ Monti poi son venuto a Reggio Emilia al Peri.

Qualcuno della tua famiglia suonava?

No. L’unico era un mio zio, che faceva musica elettronica in tempi non sospetti. Meraviglioso, fuori come un cavallo, era l’unica persona della mia famiglia che suonava. Strimpellava la chitarra e usava il computer.

Quindi non sai perché proprio la chitarra.

Non me lo ricordo. Me la sono trovata in mano e non l’ho mai più mollata. Infatti adesso ho un rapporto conflittuale con lo strumento. Studiare tanto ha anche dei lati negativi: si può arrivare a fare esperienza di un rifiuto di una cosa così bella come la musica. Il Conservatorio ti mette tanto alla prova; conosco tante persone che hanno mollato, non perché non fossero brave ma perché non ce la facevano più, psicologicamente, proprio.

C’è stata una linea di confine tra lo “studiare da conservatorio” e lo “studiare per me, fare le cose che piacciono a me?” Hai sentito che stavi facendo la cosa giusta?

È una bella domanda. Sono sempre a cavallo tra queste due cose, tra la gratitudine che provo nei confronti del conservatorio e il rigetto e il dire: “Voglio studiare perché voglio farlo io e non perché qualcuno mi indica un percorso”. Quando ho finito il Peri e mi sono diplomato in chitarra, questa cosa l’ho sentita molto e mi sono detto: “Abbandono la musica classica e vado a studiare musica elettronica”. Sono passato da un conservatorio all’altro quindi non è che io abbia fatto chissà quale cambiamento radicale, però ho sentito quel salto, anche perché il mondo della musica classica è molto chiuso e competitivo, tutte cose che non combaciavano con quello che sentivo.

La musica cambia, è il nome di questo progetto e il suo grande tema. In che modo ti ha cambiato la musica? Ci sono stati dei momenti particolarmente significativi e di svolta o hai sentito che giorno per giorno tu modificavi qualcosa di te?

Per tanto tempo non mi sono neanche posto questa domanda. Era scontato: per me è naturale, mi alzo la mattina e se non devo fare altro mi siedo al computer e scrivo musica.

Quindi tu componi?

Sì. È una cosa naturale per me, ti cambia la vita perché è completamente un’altra maniera di fare esperienza anche della tua giovinezza. Ci sono alcuni miei coetanei che sono già inquadrati in azienda, hanno qualche soldo da parte, iniziano a metter su famiglia. Tu ti ritrovi sempre in un percorso parallelo rispetto al loro. Fai più fatica, guadagni meno, ma so che non potrei fare altro.

Hai fatto delle scelte, quindi; cioè, il mondo normale andava in una direzione e invece tu no. Le hai subite o sei contento?

Entrambe le cose. Un po’ le subisci, cioè, quando pensi: “Cavolo, non posso andare in vacanza perché non ho un euro”, oppure, “Non posso andare alla festa del mio amico perché devo andare a suonare”, è vero un po’ le subisci, ma d’altra parte se fossi alla festa del mio amico subirei il fatto di non essere andato a suonare. Non ho quasi mai rinunciato ad andare a suonare per fare altro. Tutte le volte che ho preso un impegno l’ho sempre onorato.

Crescendo, ti sei reso conto di aver mai messo in secondo piano l’interesse per qualcuno?

Entrambe le cose. Un po’ le subisci, cioè, quando pensi: “Cavolo, non posso andare in vacanza perché non ho un euro”, oppure, “Non posso andare alla festa del mio amico perché devo andare a suonare”, è vero un po’ le subisci, ma d’altra parte se fossi alla festa del mio amico subirei il fatto di non essere andato a suonare. Non ho quasi mai rinunciato ad andare a suonare per fare altro. Tutte le volte che ho preso un impegno l’ho sempre onorato.

Come ti vengono le idee?

Ho la fortuna di essere molto prolifico, quindi giocando con gli strumenti poi mi vengono idee. Una melodia, un testo che leggi, tutto. Tutto è potenzialmente uno stimolo compositivo e quando capisci questa cosa diventi prolifico. Il problema di chi non riesce a comporre non è che non è capace ma che non ha acquisito questa consapevolezza. Invece se nel momento in cui componi sai con certezza che è quello che sei in quel momento, nessuno ti potrà dire niente e allora puoi comporre continuamente.

Se andassi a prendere 10 canzoni che hai scritto fino ad oggi riusciresti a ritrovare il momento che stavi vivendo, a come stavi, alla tua biografia di quegli anni?

Sì. Diciamo che succede anche una cosa molto bella, ovvero che a volte ascolti della roba che hai fatto dieci anni fa e non ti rendi neanche conto che le hai fatte tu. Sembra proprio un’altra persona, non ero io. Oppure dici: “Cazzo, ma quella roba l’avevo fatta bene”, ed è incredibile perché in quel momento mi faceva schifo e invece la ascolti dopo dieci anni e pensi che, invece, non era così male.

E cosa fai, ci rimetti mano? La modifichi con un po’ di oggi?

Dipende. Trovo che ritornare sui propri passi, a livello pratico, sia molto faticoso; ed è un problema di chi compone: se sei molto prolifico ti viene facile iniziare le cose; riuscire a concretizzare, creare un pacchetto che funzioni, quella è la vera difficoltà. Mi trovo sempre con tantissimi stimoli, tante bozze; non riesco mai a concluderle tutte proprio perché è faticoso ritornare sui propri passi.

Lavori in sinergia con altri o quando componi cominci e finisci da solo?

Dipende dai progetti. Alcuni nascono in solitaria, altri invece no. Ad esempio con Mara lavoriamo in sinergia: faccio le musiche, gliele propongo e lei ci scrive sopra; poi ci lavoriamo insieme agli altri musicisti i quali a loro volta ci mettono del loro. Diciamo che lavorare da soli è anche estremamente rilassante perché se hai un’idea in testa riesci a concluderla, senza dover fare mediazioni o compromessi – che è un po’ la fatica del lavoro di gruppo, ecco.

Che obiettivi ti stai dando? Come ti vedi tra dieci anni, sempre nella musica?

Sì. Certo, ci sono dei momenti in cui metto in discussione anche quello e mi chiedo se lo voglio davvero perché, come vi dicevo, nella musica mi ci sono ritrovato: non ricordo un momento in cui ho deciso questa cosa. Però so che la musica è quella cosa dalla quale se provi uscire lei ti prende per il coppino e ti porta indietro.

Quindi hai avuto dei momenti in cui hai detto: “Ferma tutto, faccio altro”. Da dove arrivavano quei momenti?

Eh, sì. Arrivano da un senso di straniamento dalla realtà, arrivano quando tutto è più difficile: quando vedi che i progetti fanno fatica ad andare avanti, che tu stai facendo troppa fatica a fare le tue cose e non ci sono dei risultati così eclatanti… allora lì cadi un po’ nel baratro. Però pensare che uno può fare anche altro è molto bello! La musica, il comporre, può anche diventare un po’ un’ossessione: ti imponi di fare questa cosa per tutta la vita e non sai perché. E diventi ossessionato da questo, tanto che diventa faticosa. Poi, se la faccio è perché mi piace, ovviamente, mi fa stare bene ed è la cosa che so fare meglio al momento.

Nei momenti in cui hai pensato all’ipotesi del fare altro, a cosa pensavi, nello specifico? Altre cose che ti piacerebbe portare avanti, al di là della musica.

Sono molto interessato alla creatività in generale; mi piacerebbe studiare scultura, pittura, scrittura… tutto quello che implica un atto creativo e di fantasia lo trovo assolutamente bello ed è una cosa che dà grande soddisfazione.

Ho fatto un erasmus in Spagna, in conservatorio a Valencia; in quel periodo non sono praticamente andato in conservatorio, per mille motivi; vivevo con sette persone in una casa fuori di testa: due erano scultori, quindi la casa era un laboratorio, praticamente. Un altro era pittore. Bellissimo. E lì mi sono messo a fare gli anelli: questi che ho alle dita li ho fatti insieme a loro. È stata una cosa molto bella.

Pensi che si possano incastrare le professionalità? Culturalmente siamo poco abituati a pensarci “contemporaneamente multipli” – anche se forse oggi iniziamo a vedere sperimentazioni maggiori – credi che si possa essere esempi di lavoro integrato?

La musica ha il vantaggio di poter fare tantissimo questa cosa, se sei portato. Perché con la composizione elettronica puoi davvero lavorare con artisti, cantanti, film, videogiochi, ecc.., tutte cose che hanno in comune la musica, ma sono lavori molto diversi e questa è una bella prospettiva perché pensare di fare lo stesso lavoro tutti i giorni della mia vita mi farebbe mancare il respiro.

Facciamo un salto indietro: quali sono stati i tuoi gusti musicali di riferimento dell’inizio, e come sono cambiati?

All’inizio ascoltavo tanto rock: Red Hot Chili Peppers, Beatles, il grunge, i Nirvana, gli Alice in Chains, tutti gruppi che andavano quando ero ragazzino e quando c’era ancora questa cosa del “metallaro”, del “rapper”, dell’ “emo”: ti identificavi con quello che ascoltavi – ed è un potere incredibile che ha la musica, se ci pensiamo, cioè, l’identificarsi con essa come persona: se ascolti la trap sei quella persona lì, diventi una sua incarnazione. E io questo l’ho vissuto.

Con la fortuna e il privilegio – perché è un privilegio, molti miei amici avrebbero voluto e non hanno potuto – di aver frequentato il conservatorio, in un orecchio continuavo ad avere il rock, la musica elettronica, il metal, e dall’altra avevo Bach, capito? Ed è una cosa meravigliosa. Cresci strano, per forza! Hai stimoli musicali completamente opposti e contemporaneamente. Ho ascoltato tanta musica classica (Beethoven, Tchaikovsky, Stravinsky, mille compositori) e tanta musica “leggera” come la chiamano in conservatorio.

Qual è la musica leggera che ti ha seguito e segnato in questi anni?
E oggi, cosa ascolti o ti incuriosisce?

Il cantautorato italiano degli anni ’60, ‘70 mi ha colpito molto. Gino Paoli, Bruno Lauzi, Mina, la scena genovese.

 

Oggi, invece, sto cercando di istruirmi nel mondo dell’elettronica, perché mi piace e mi interessa molto, anche per la visione del futuro che veicola. C’è una visione del futuro nella musica elettronica che è molto bella, in cui le macchine vivranno con l’essere umano, che lo voglia o no. Sono molto interessanti anche le domande che pone questo genere di musica: l’artista è la macchina o chi imposta la macchina? Perché tante cose della musica elettronica non richiedono una gran abilità tecnica nel suonare, cosa che invece il conservatorio ti insegna e ti impone. Trovarsi davanti a questo mondo dopo aver fatto il conservatorio è estremamente contraddittorio ma molto interessante. Ci sono tanti artisti che mi piacciono: Trentemøller, ad esempio. Ma sì, in generale, sono sull’elettronica.

Quello che scrivi oggi, quando ti alzi la mattina, può essere considerato un insieme di tutto quello che hai attraversato? È stato un arricchimento continuo quello che hai attraversato o ti sei detto che alcune cose potevi anche non ascoltarle?

Assolutamente sì, qualcosa ho assimilato da ogni situazione. Anche dalle esperienze che vivi nella vita: nell’anno in cui ho vissuto in Spagna mi sono intrippato col flamenco, è stata la mia ossessione e lo è tutt’ora… una musica veramente sanguigna, ed è una cosa che ritrovo molto nella mia musica. Poi c’è chi dice che se sei, come dire, “libero da influenze” sei più sincero.

Ti facevo questa domanda proprio per questo. Anche io concordo con la tua versione: più esperienze uno fa, meglio è, poi sceglie, però intanto le hai nella tua cassetta degli attrezzi.

Certo, anche perché, voglio dire, non viviamo nel vuoto. Siamo sempre in dialogo con il presente e con il passato, con tutta la storia dell’arte che continuiamo a portarci dietro e a interpretare continuamente. Non si scappa da questa relazione.

C’è una composizione o una canzone (tua) a cui sei particolarmente legato?

C’è una composizione a cui sono molto legato che è un brano che ho scritto per orchestra, per il corso di direzione che abbiamo fatto in conservatorio e che ho diretto - malamente, perché è una cosa difficilissima. L’avevo intitolato “Ad astra”.

E si è fermata a quel momento conservatoriale o l’hai ripresa dopo?

Ci sono delle cose che quando componi continui a portarti dietro e te le trovi in mano senza che tu te ne accorga. Altre invece che non sono mai uscite e nessuno le ha mai ascoltate ma ce le hai in testa e ti lavorano in testa ossessivamente. Un motivetto, un giro di chitarra… poi trovano una strada ed escono. Quello è molto bello, perché sono proprio cose tue.

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Che consigli daresti a un giovane, un adolescente, che comincia con la musica?

Di seguire la propria pancia ma allo stesso tempo di essere disciplinato in quello che fa. Di studiare con disciplina, con metodo, cercare di essere intelligenti quando si fanno le cose, consapevoli. Io non lo sono mai stato, in adolescenza, mi sono sempre fatto trasportare dalla mia pigrizia o studiavo perché mi dicevano di farlo, ma non avevo voglia. Secondo me la passione va coltivata tutti i giorni; non so se sono io quello strano o se sia così ma se mi lasciassero scegliere cosa voglio fare durante la giornata direi bere, mangiare e fumare sigarette tutto il giorno.

Che consigli daresti a un giovane, un adolescente, che comincia con la musica?

Di seguire la propria pancia ma allo stesso tempo di essere disciplinato in quello che fa. Di studiare con disciplina, con metodo, cercare di essere intelligenti quando si fanno le cose, consapevoli. Io non lo sono mai stato, in adolescenza, mi sono sempre fatto trasportare dalla mia pigrizia o studiavo perché mi dicevano di farlo, ma non avevo voglia. Secondo me la passione va coltivata tutti i giorni; non so se sono io quello strano o se sia così ma se mi lasciassero scegliere cosa voglio fare durante la giornata direi bere, mangiare e fumare sigarette tutto il giorno.

Tra musicisti, quando siete in tournée, parlate mai di queste cose? Incroci di esperienze, le vostre origini, le vostre paure, oppure pensate solamente a suonare?

No, non se ne parla; poi dipende da con chi si è. Con persone più adulte devo ammettere che faccio più fatica ad avere questo tipo di condivisione. Con i miei coetanei invece vedo che abbiamo gli stessi identici problemi, siamo proprio tutti nella stessa situazione quindi è molto facile e interessante parlare di queste cose.

In questo periodo di Covid cos’è successo?

Mi sono chiesto se quello che faccio è davvero necessario, perché quando vedi che l’unica cosa necessaria nel mondo sono i dottori e quelli che vendono cibo al supermercato, allora tu ti chiedi a cosa serve la musica. Ed è una cosa che continuo a chiedermi; è una cosa che continuo a fare ma che continuo a chiedermi: “Ma questa roba qua a che cosa serve?”. E quando lo capirò probabilmente smetterò di farlo, non lo so, o magari no.

E che risposta temporanea ti sei dato? Ammesso che tu te ne sia data una.

Che intanto serve a me, alla mia vita, al mio benessere. Su larga scala non lo so; comunque credo che alle persone piaccia la musica, sono poche quelle a cui proprio non interessa – e per fortuna. E l’idea che tu possa dare un contributo al benessere di una persona che non sai neanche chi è attraverso quello che hai fatto, è molto bella. Riuscire a fare quello sarebbe bellissimo, ecco.

È qualcosa che potremmo definire “la dimensione estatica della musica”. Tu la senti? Cioè, che aria tira quando sei sul palco e suoni? Senti che viene condiviso quello che stai comunicando?

A me sembra che quello che faccio arrivi a chi ascolta, ho spesso questa impressione, per fortuna. Non so se sia per mia ingenuità o mia superbia, ma la sento e mi fa molto piacere vedere che una persona possa commuoversi ascoltandomi suonare la chitarra. È una roba che ti fa dire: “Davvero?”. L’ho visto, gente davvero contenta di averti ascoltato e tu non sai neanche tanto cosa dire, sei in imbarazzo, ma fa molto piacere. Forse serve a qualcosa, ecco. Chi lo sa.

Definisci per te cos’è la musica.

Potrei citarti Borges, così, per fare il figo: “Misteriosa forma del tempo”, perché è una cosa che è strettamente legata allo scorrere del tempo, il fatto stesso che tu stia ascoltando musica è perché il tempo scorre. Questa dimensione fisico-astrale è molto bella. Credo sia una scultura del tempo. Se possiamo riempire il tempo che scorre di qualcosa, riempiamolo di musica. È anche un mezzo di espressione dell’umanità, che l’umanità crea da quando è nata; pensare che tu sei legato a persone che hanno vissuto tremila anni fa è una roba commovente, bellissima. Senti la vastità dell’umanità e anche la tua piccolezza, il fatto che sei uno dei tanti e nello stesso tempo che hai una responsabilità, stai continuando qualcosa. E torniamo alla questione delle bozze: ho mille bozze di idee a casa, ma finché non gli do una forma esistono nel mio tavolino, nelle mie orecchie, che va bene anche quello, ma non esistono per nessun altro.

E che stratagemmi hai escogitato per gestire tutte quelle bozze? Te lo chiedo anche per carpire suggerimenti.

Devi lavorare razionalmente come farebbe un falegname. Devi dire: “Questa cosa deve avere un inizio e una fine”, quindi gli fai una struttura, anche matematica, anche disegnata, qualsiasi cosa che gli dia una traccia. La cosa che ritengo utile è obbligarsi sempre a finire tutto, anche che non ti piaccia, anche che lo trovi brutto, l’importante è che abbia un inizio e abbia una fine. Ci vuole molta disciplina – che io ho in pochi momenti della mia esistenza.

Nietzsche diceva: “È necessaria una buona dose di disciplina per uno spirito libero”.

Eh sì. “La libertà è una forma di disciplina” diceva il buon Giovanni Lindo Ferretti.

Questa domanda invece riguarda il laboratorio che hai condotto in Factory: com’è andata? Com’è stato insegnare?

Mi sono divertito molto; era la prima volta che insegnavo – non so se Luca lo sapeva, non gliel’ho mai detto ; ) . È stato bello; ho sempre snobbato molto l’insegnamento ma devo dire che è molto utile a farti chiarezza in testa: per insegnare agli altri è fondamentale avere le cose limpide in testa. E anche capire le cose utili che sai e che ritieni utile insegnare alle altre persone. Veramente, le tre cose più importanti che tu hai imparato le capisci insegnando, perché sono quelle che vuoi dire a loro. A me sembra di aver trasmesso queste cose almeno a un gruppo di persone, magari non a tutti, ma sentivo che c’era interesse. Almeno lo spero, io in quel momento mi sentivo appassionato.

Il sogno più pazzo che vorresti realizzare?

Un banalissimo girare il mondo e l’altro fare delle sculture giganti in mezzo al bosco.

In nessuno dei due c’è la musica. Guarda che è incredibile.

(ride) Sì, incredibile. Ma perché do la musica per scontata. Nei miei sogni di libertà non c’è la musica, perché è una cosa che ti ossessiona e che ti da tutto, croce e delizia. E comunque nulla vieta di girare il mondo suonando; fino ad ora la musica mi ha fatto viaggiare tanto, ho visto tutta Italia.

Durante l'ultima stagione di attività, Lorenzo Valdesalici ha condotto il laboratorio di produzione musicale.  Lo ha supervisionato la nostra Claire Becchimanzi, la quale, durante uno degli ultimi incontri, ha sentito alcun* de* partecipant*. 

Aspettative, modi di intendere la musica e la creatività, speranze e percorsi segnati da esperienze sono emersi nelle quattro interviste che vi proponiamo qui sotto. 

Ringraziamo Carla, Marco, Matteo e Silvia per averci dedicato tempo, fiducia e belle parole. 

Buon ascolto a tutt*.  

Produzione musicale - Intervista CarlaSD Factory - laboratorio creativo
00:00 / 12:11
Produzione musicale - Intervista MarcoSD Factory - laboratorio creativo
00:00 / 09:55
Produzione musicale - Intervista MatteoSD Factory - laboratorio creativo
00:00 / 09:05
Produzione Musicale - Intervista SilviaSD Factory - laboratorio creativo
00:00 / 12:24
Chiara Pancani

Chiara Pancani

Cantautrice reggiana, da anni scrive canzoni che parlano di lei e di quello che vive; scrivere canzoni è il suo modo di esprimersi nel mondo, un gesto che è sempre stato automatico, necessario, desiderato. Da anni studia e scrive per uscire nel mondo come artista e oggi presenta il suo primo singolo, “Lichene” qui in Pre-save e in uscita il 19 novembre su tutte le piattaforme streaming

Chiara Pancani

Chiara, raccontaci la prima volta che ti sei innamorata della musica; com’è iniziato tutto?

Ero alle medie e mio fratello mi aveva dato il suo vecchio cellulare; dentro c’erano canzoni dei Sum 41, Green Day, Linkin Park,... e ascoltandoli ho pensato: “Che bella la musica”. Poi pian piano ho scoperto anche altri generi come il country, il folk, tipo Jake Bugg. Però sì, è stato grazie al rock che ho scoperto la musica.

E grazie a un cellulare...

Sì, è vero...

E da lì com’è proseguita?

C’è stato un momento durante quegli anni in cui ho capito che il mio modo di esprimere le mie emozioni era attraverso la musica, che attraverso la musica ero libera di essere me stessa e potevo dire quello che pensavo e provavo. Era diventato anche il mio modo di elaborare quel che sentivo. 

La prima canzone l’ho scritta di getto, un pomeriggio; mi sono detta: “Devo scrivere una canzone perché sono in un periodo in cui non so cosa fare; è l’unico modo che ho per elaborare questi sentimenti, queste sensazioni”.

E cos’hai scritto?

La mia prima canzone, in inglese, tra l’altro, un inglese molto semplice. Si chiama Crazy Dream e parla del mio sogno di diventare una cantante. E da lì ho continuato: ogni volta che sentivo il bisogno di esprimere qualcosa, scrivevo. Da quel momento scrivere e cantare è diventato l’unico modo per me per elaborare il mio vissuto. Le mie canzoni sono un po’ come il mio diario segreto: se le rileggo, nel corso degli anni so cos’ho fatto, so quello che ho passato, so quello che ho provato.

Chiara Pancani

Proprio perché ti hanno accompagnata come se fossero un diario, si sente la crescita nelle tue canzoni?

Si sente, a livello pratico: il linguaggio è diventato un po’ più maturo; è cambiata anche la lingua, perché ho iniziato a scrivere in italiano – all’inizio scrivevo solo in inglese, non so perché; ancora, è cambiato anche il modo di impostare la canzone. E’ cambiata anche la mia modalità di creare canzoni: all’inizio era solamente come la scrittura di un diario musicato; col tempo ho iniziato a pensare: “Se questa canzone la dovessi cantare, come la canterei? Che intonazione, che impostazione vocale le darei?”. Le canzoni si sono professionalizzate, ecco. Dall’essere semplicemente testo che potevo cantare sono diventati testi che impostavo in base a come volevo suonarle.

I contenuti quindi parlano della tua vita, sono letteralmente la tua colonna sonora?

Si, sono autobiografiche, ci sono tutte le esperienze che ho vissuto. Spesso narrate attraverso metafore o figure, scrivo per immagini. Ad esempio in una canzone associo il lupo cattivo e cappuccetto rosso a un ragazzo con cui è andata male e a me. Solo una canzone che ho scritto non è autobiografica.

Quali sono i tuoi riferimenti musicali odierni?

Ne ho tanti: ad esempio i Paramore o The Pretty Reckless, principalmente però, vocalmente e come emozioni che trasmettono, mi faccio ispirare molto da Lana Del Rey e Marina and the Diamonds, Giorgieness, Jake Bugg, Billie Eilish perché hanno anche un tipo di vocalità molto più simile alla mia.

Quanto tempo dedichi alla musica, nella tua vita, se dovessi dirlo in percentuale?

C’è sempre una canzone o una melodia che mi suona in testa, anche mentre studio, qualsiasi cosa faccio. A volte mi sveglio con delle melodie in testa, me le canticchio e me le registro e poi magari ci faccio qualcosa. In realtà la musica è onnipresente nella mia vita anche quando non sto cantando o suonando. Le mie canzoni per me sono lo scopo della mia vita, la cosa più importante. Mi potrebbero dire: “Da domani non puoi fare più l’università” e ci starei male, ma non così tanto come se mi dicessero: “Da domani non puoi più scrivere canzoni” o “Le canzoni che hai scritto finora le dobbiamo buttare”.

A cosa credi di aver rinunciato per la musica? Se tu non avessi avuto questa passione così pervasiva, cosa pensi che avresti fatto di diverso?

La mia vita sarebbe diversissima. Probabilmente mi sarei dedicata di più al teatro, che è un’altra delle mie passioni che mi aiuta a crescere come persona. Essendo molto timida non riuscivo ad esprimermi; ad esempio a lezione di canto mi vergognavo e non riuscivo a cantare, anche se c’eravamo solo io e l’insegnante. Allora ho iniziato a fare teatro e questo mi ha aiutato molto ad andare oltre la timidezza.

Comunque ti sei sempre vista in una dimensione artistica.

Sì assolutamente. Sempre. La mia vita senza l’arte, qualsiasi tipo di arte, non avrebbe avuto senso.

Chiara Pancani

La tua idea musicale è sempre e solo in solitaria o pensi che potresti anche evolvere in una dimensione di gruppo?

Ho avuto tante band in passato e purtroppo ho capito che mi trovo meglio da sola; con dei collaboratori, ovviamente, perché ho bisogno di persone che siano specializzate in quello che fanno, però rimanendo sempre la regista della situazione. Per esperienza posso dire che con una band non mi troverei a mio agio; ne ho provate tante con tanti stili diversi e provenienti da tanti ambienti diversi e non sono mai riuscita ad andare da nessuna parte. Da quando mi sono messa in proprio riesco a darmi degli obiettivi e raggiungerli.

Sei gelosa delle tue canzoni.

Sì perché sono mie, sono autobiografiche. Ho scritto un pezzo in collaborazione con un mio amico chitarrista, non l’abbiamo ancora usato però c’è.

E la dimensione live? Cosa ci dici?

Per ora live da solista non sono riuscita a farne per via del periodo storico che abbiamo vissuto. Però ho fatto quattro o cinque live con la mia scuola di musica, la School of Rock di Sant’Ilario: per il saggio finale formiamo delle band, scegliamo le canzoni… Ho fatto un live anche anche tramite la mia insegnante di canto, ma sempre legata alla scuola.

Come componi? Come arrivano le canzoni?

Non ho un vero e proprio metodo. Alcune canzoni le ho scritte letteralmente in cinque minuti prendendo l’ukulele in mano, facendo prima un giro di accordi e trovando le parole e la melodia. Ho scritto in questo modo la maggior parte delle mie canzoni. Può anche capitare però che io abbia in mente una melodia e poi trovo gli accordi, ma possono passare anche dei mesi. Per una canzone ho impiegato cinque anni perché avevo scritto tutta la prima strofa, ma non avevo idee per la seconda strofa. Ho guardato un film e subito dopo averlo visto mi sono detta “Noo, devo scrivere la seconda strofa di quella canzone!” E nel frattempo erano passati, appunto, cinque anni.

Hai un album in produzione?

Più che un album ho delle canzoni, perché ogni canzone che scrivo è un microcosmo in sé, cioè parla di determinati argomenti e ha un determinato sound. Per un po’ di tempo ho avuto l’idea di fare un concept album perché avevo scritto una decina canzoni che raccontavano una storia, dall’inizio alla fine. Però è un lavoro complicato e un costo anche impegnativo, che potrò permettermi quando avrò maggiore stabilità economica. Per ora quindi procederò con la produzione di tanti singoli, tutti diversi, che pian piano farò uscire e in ognuno parlerò di un argomento diverso.

Questa intervista segue il filone “La musica cambia”, cioè in che modo la musica cambia le persone. Nel tuo caso forse si potrebbe dire che la musica ti ha proprio accompagnato, da sempre, nei tuoi cambiamenti. La tua stessa musica è il cambiamento di te stessa.

Sì, esatto, penso che la mia musica rispecchi tutti i miei cambiamenti, e mi abbia anche dato una bella spinta perché in alcuni momenti sono stata proprio obbligata a non mollare. Ci sono stati momenti difficili, ad esempio quando andavo a lezione di canto e non riuscivo a cantare per la timidezza. In quel momento ho dovuto fare una scelta e dirmi: “O rinunci o ti fai forza e vai avanti”. L’ho fatto perché non volevo rinunciare alla musica.

Questo cambiamento che hai fatto attraverso la musica te lo sei portata anche nella vita quotidiana?

Sì, certo. Grazie al teatro e grazie alla musica ho fatto questo grande cambiamento; sotto sotto la mia natura rimane sempre quella, ma ho imparato a sapermi apprezzare di più e non sentirmi sempre sbagliata. La musica mi ha aiutata tantissimo perché so che non c’è nulla di giusto e nulla di sbagliato, che quello che esprimo ha valore; e quindi io ho valore perché io l’ho creata. È anche un modo per dirmi che ho un significato in questo mondo. Non sarò la musicista più brava del mondo ma so scrivere canzoni e questo è lo scopo della mia vita e va bene così.

Questo scopo, che vedo essere già molto appagante per te, pensi ti porterà a qualche altro passo, ha qualche desiderio di professionalizzazione?

In realtà no, perché se fosse una professione penso che dovrei viverla in modo del tutto diverso e scendere a dei compromessi a cui non voglio scendere. Per me musica è libertà di essere me stessa in tutte le mie sfaccettature, se dovesse diventare un lavoro penso che questa parte verrebbe smussata e quindi non mi piacerebbe più così tanto e perderebbe il suo significato iniziale. Rimanere autonoma senza andare sotto un’etichetta per me significa lasciare che la mia musica rimanga libertà di espressione.

Dirai sempre di no?

Non lo so, nella vita mai dire mai. Diverse volte mi è capitato che mi proponessero contatti o esperienze come The Voice o X - Factor, ma per come l’ho pensata fino ad adesso è no, anche perché non faccio musica per apparire.

Chiara Pancani

A chi permetti di entrare nel tuo scrigno personale, cioè a chi permetti di ascoltare le tue canzoni anche prima che escano?

Pochissime persone, si contano sulle dita di una mano: un paio di amiche, mio fratello e i ragazzi con cui lavoro in studio, che sono anche miei amici.

E c’è discussione?

Chiedo sempre dei pareri: alle persone che lavorano con me e che sono musicisti; alle mie amiche chiedo un parere legato all’emozione, invece.

C’è qualche canzone a cui sei più affezionata delle altre?

Le canzoni più malinconiche sono quelle a cui mi lego di più: sono quelle che mi toccano maggiormente e trattano di emozioni forti.

E canzoni gioiose?

Canzoni propriamente gioiose no, ma un paio di canzoni diverse, diciamo, sì. Ad esempio ce n’è una che ho scritto che definirei “serena”, davvero esprime tanta serenità; il suo ritornello è un giro di Do, le strofe sono tutte in maggiore. L’ho scritta lo scorso anno, dopo aver chiuso una relazione tossica, e l’ho scritta apposta per non dimenticarmi quella sensazione e per ricordarmi che qualsiasi cosa capiti, posso tornare a stare così, che è possibile star bene di nuovo. Il mio primo singolo, Lichene, riprende proprio quella serenità che avevo perso di nuovo a causa di un'altra persona. Lichene ha una melodia molto allegra e parla di ritrovare l'amore per se stessi e la propria serenità indipendentemente dagli altri.

La musica è il tuo social network, praticamente.

Sì, è vero. Infatti spero proprio di riuscire a fare uscire pian piano tutte le mie canzoni, per dare anche un’immagine più completa di me.

Le canzoni che scrivi, nel tempo, possono subire cambiamenti?

Sì. Di solito i testi e le melodie non cambiano mai ma la struttura del testo e della canzone sì. I testi non cambiano perché pondero bene ogni parola: se una parola la scrivo è perché è proprio quella che deve essere usata, se sento che qualcosa non va la cambio subito.

Possiamo dire quindi che le tue canzoni, oltre a parlare di te, vogliano dire qualcosa al mondo.

Sì, è vero; scrivo per me ma ho l’ambizione anche che possano essere di esempio per qualcuno, che qualcuno possa ritrovarsi in quello che scrivo, perché magari vive emozioni simili alle mie. Scrivo pezzi che tendenzialmente possono risultare “malinconici” ma il messaggio di fondo è sempre positivo: quello che voglio dire è che anche le situazioni dolorose puoi accettarle e puoi tornare a stare bene, che la vita va avanti, di andare oltre.

Sei molto giovane e ti chiedo a cosa potresti rinunciare per la musica? O cosa potrebbe farti rinunciare alla musica (ad esempio, lavoro, famiglia, un viaggio, ecc)?

Penso che troverei sempre il tempo per la musica. Magari sarebbe ridimensionato, ma resta comunque una priorità e quindi il tempo lo si trova. Anche perché la musica nella mia testa va sempre avanti, non si ferma, a prescindere da quello che faccio.

Chiara Pancani
Giardini di Mirò

Intervista ai Giardini di Mirò

Abbiamo incontrato i Giardini di Mirò una sera di ottobre all’interno dello Studio Seltz; gli abbiamo chiesto di poterli intervistare e raccogliere, così, la storia di una band affermata nel panorama italiano e internazionale, con più di vent’anni di carriera e tantissimi concerti alle spalle. 

Giardini-di-Mirò-band

Perché il nome Giardini di Mirò?

L’origine del nome risale a molti anni fa ed è avvolta da mistero e possiamo dire che il fascino risiede proprio nel non svelare la cosa a tutti.

Quali sono e come sono stati i vostri inizi con la musica (eredità genitoriale, strumento trovato in casa, amico/a che già suonava o cantava, disco a disposizione in casa, primo genere musicale approcciato)?

Tutti abbiamo storie diverse e scintille personali che hanno scatenato la passione per la musica: dischi in casa che ci hanno folgorato acquistati da genitori o fratelli e trovati nelle collezioni personali, parenti impegnati nella musica, amici che ci hanno trascinato a concerti e così via.

La fortuna di ognuno di noi è di aver sempre avuto la curiosità di esplorare generi diversi e i più disparati linguaggi espressivi. Non amiamo troppo le stanze a compartimenti stagni e le rigidità delle etichette.

In che modo l’avete fatta diventare parte delle vostre vite?

È difficile rispondere a questa domanda perché ognuno di noi viene da percorsi diversi, ma potremmo dire che è avvenuto tutto in maniera naturale seguendo la passione, mettendoci impegno e dedizione. Nulla cade dal cielo e vanno messi in conto momenti di stanca, di difficoltà e qualche risultato non proprio soddisfacente. Va però detto che il bello di un percorso così complesso sta nel vivere giorno per giorno l’evoluzione e la crescita personale e di band che è necessaria per tenersi stretta la dimensione musicale durante gli anni che passano, gli impegni di lavoro e famiglia che aumentano, ecc.

Quali sono stati, durante la vostra crescita, i punti cruciali di svolta: scelte e rinunce fatte pro-musica; occasioni professionali colte o perse.

Tutti noi abbiamo dovuto fare scelte e pesare alcune opportunità. Suonare a certi livelli comporta tempo, impegno costante ed investimenti personali. Andare in giro, portare a compimento un tour vuol dire stare lontani da casa, dagli affetti e tornare mediamente più stanchi di come si è partiti senza considerare la preparazione attraverso le prove o prima ancora comporre un album e registrarlo. Inutile dire che per noi tutto questo è si impegnativo ma fonte di soddisfazione e divertimento: inutile raccontarci storie, amiamo quello che facciamo e una vita al bar non fa per noi senza per questo disdegnare i bar! Sicuramente nel corso degli anni aumentano le responsabilità personali sul lavoro e a casa ed aumenta, per così dire il livello di Tetris e degli incastri necessari per far funzionare tutto. Ne vale la pena? Assolutamente si.

Come nasce una canzone?

Cosa intendiamo per canzone? Già su questo probabilmente ci sarebbe da dibattere per ore. Non siamo forse la band che più usa la forma canzone standard se la intendiamo come strofa ritornello e via. Siamo curiosi e amiamo sperimentare per questo i nostri brani nascono in maniera diversa a seconda di chi porta le idee o in base a quello che in un dato momento abbiamo in testa. Si può partire da idee che qualcuno sviluppa a casa, le condivide e su cui ci si lavora assieme in sala prove cercando l’arrangiamento migliore. Altre volte si parte da delle jam in sala prove o da alcune suggestioni date da sperimentazioni sonore e ricerche.

Dimensione live: prime volte; e cosa è cambiato nel tempo a livello di emozioni e prestazioni.

Sono passati tanti anni dai primi live e per fortuna l’emozione la voglia di salire sul palco e spaccare non sono andate via. Incontrare il pubblico durante i concerti è un rito mai uguale a sé stesso in cui ogni volta ci sono sfumature ed emozioni differenti. Una scaletta di brani durante un tour cresce e matura, a volte non convince e viene modificata: è materia viva. Stare in giro a suonare ed esibirsi per i propri fan o chi viene a vedere un live per la prima volta è alla fine la cosa più bella di tutta questa storia del suonare.
Dal punto di vista tecnico e più prestazionale si può dire che più concerti fai e più acquisisci sicurezza, sai come preparare l’evento o come ovviare a difficoltà ed inconvenienti che inevitabilmente ti troverai a dover fronteggiare.

Cos’è la musica per voi? E come la conciliate oggi con le vostre vite?

Come detto prima anno dopo anno aumentano le difficoltà ma la voglia di fare musica rimane invariata, per noi è più di una passione, direi una parte della vita fondamentale e che ci accompagna non solo come musicisti, ma anche come appassionati di dischi, di storie legate alla musica ed agli interpreti.
Siamo anche degli amanti della musica live come spettatori e questi due anni di rarefazione degli eventi sono stati duri per più motivi.

Attività presente e futura.

Al momento abbiamo appena pubblicato un nuovo lavoro ("Del tutto illusorio", ndr) nato appena prima che esplodesse la pandemia mondiale e che abbiamo concluso a distanza in un periodo di tempo abbastanza lungo.
Siamo in una fase interlocutoria e stiamo cercando di capire come evolverà la situazione: di certo non staremo fermi a lungo e se la situazione lo permetterà proveremo a tornare on the road e ci dedicheremo a nuova musica.

Del tutto illusorio-Giardini di Mirò

Cosa consigliereste a un giovane che oggi si approccia alla musica?

Forse la cosa più banale da dire, ma anche la più vera: segui la tua passione, fai quello che ti piace senza curarti delle mode e cerca di farlo al meglio senza arrenderti alla prime difficoltà. Non meno importante è il fatto di ascoltare più musica possibile, andare a più concerti che puoi ed imparare da chi è in giro da tanto tempo senza copiare, provando a sperimentare.

Down InThe Delta

Intervista ai Down In The Delta

Quartetto emiliano Crossover Rap ibridato di sperimentazioni blueseggianti, Stoner e psichedelie, unite in un suono pastoso e inebriante che ricama una linea quasi mantrica, ricco di un distorto gonfio di bassi che esplode in un muro strumentale creando un terreno fertile ad un habitat naturale di sfogo.

 

Manuel Costi  - basso |  Federico Pardini - chitarra | Davide Caselli - batteria | Michael Milite - voce

Down In The Delta

Come e quando la musica è entrata nella tua vita?

È entrata quando ero alle medie, in seconda. Ci trovavamo con gli amici a casa di uno di loro, e andavamo – incuriositi – nel suo garage, dove faceva base la band di suo cugino. Prendevamo in mano gli strumenti, ci piacevano. Lì cominciò tutto…

Con quale strumento hai cominciato a flirtare?

Il primo interesse è stato per il basso, poi ho cominciato a suonicchiare la batteria, poi ho capito che a me piaceva soprattutto cantare.
Così abbiamo cominciato a fare, come tutti, delle cover di gruppi rock.

Quando è arrivato il tuo primo progetto?

A circa vent’anni; con quel primo gruppo siamo anche venuti a suonare qui in questo posto (SD Factory, allora Officina delle arti). Avevamo già cominciato a scrivere i nostri pezzi. Lì ho conosciuto Manuel (bassista, ndr).
Poi quell’esperienza si è conclusa e, insieme a lui, è cominciata quella dei “Down in the Delta”.

Avete appena fatto uscire il vostro album, che possiamo definire con orientamento hip hop; come è avvenuto il passaggio dal rock al genere attuale?

Ascoltavamo molto hip hop anni ’90, che in molti casi era un mix tra rock ed hip hop; poi anche noi abbiamo preso questo filone, ci veniva bene e abbiamo continuato.

Avendo cominciato a suonare molto presto, come avete conciliato questa passione con la vostra adolescenza?

Ovviamente tutti studiavamo o lavoravamo, quindi ci dedicavamo alla musica principalmente nei fine settimana e spesso anche qualche pomeriggio della settimana. Poi, crescendo, abbiamo cominciato a vederci, oltre che nei weekend, anche qualche sera, e continuiamo così, soprattutto quando dobbiamo sperimentare e provare per i concerti.

Hai parlato di sperimentazione, a noi questo concetto piace molto. Cos’è che vi fa cercare cose diverse?

Credo che c’entri anche l’età, il crescere, oltre naturalmente alla curiosità.

Ad esempio, nel nostro album ci sono pezzi che hanno già qualche anno e sono rappresentativi di quel periodo, delle cose che succedevano allora: l’uscita da scuola, le prime esperienze lavorative e relazionali, le prime frustrazioni… e quindi la musica ci usciva un po’ più aggressiva, era più istintiva.

Adesso la nostra musica è più organizzata, più studiata.

C’è un progetto più chiaro, ma non meno emotivo.

Cosa intendi per progetto?

Intendo organizzare le nostre differenti sensibilità verso una sola direzione. Siamo in quattro nel gruppo, chitarra- batteria- basso- voce. Ognuno porta qualcosa di suo e poi fondiamo tutto insieme.

Come nasce un vostro brano?

Normalmente nasce da una melodia, una bozza; ci si lavora insieme, la si rende più o meno musicalmente completa, poi la registriamo ed io me la porto a casa per scriverci il testo.

Dove proponete l'ascolto dei vostri album?

Principalmente sui nostri canali social, oltre a Spotify, YouTube, Bandcamp.

Prima hai parlato di concerti; raccontaci qualcosa: il primo concerto, qualche aneddoto, quali emozioni avete provato…

Allora, il primo live è stato abbastanza particolare, perché eravamo a Bologna,

ed era il primo concerto dopo il periodo di lockdown e delle varie limitazioni alla musica live. Eravamo un po’ frastornati perché non ci ricordavamo più come funzionava essere in concerto, essere su un palco... per il batterista addirittura era il primo concerto in assoluto essendo il più giovane della band. Ma soprattutto, eravamo proprio fuori contesto! La maggior parte degli altri gruppi proponevano musica diversa dalla nostra, ma ci siamo concentrati su di noi, avevamo bisogno di suonare dal vivo, avevamo bisogno di fare quell’esperienza in quel momento. E l’emozione devo dire che è stata davvero forte.

Anche adesso abbiamo una fortissima sete di date!

Oggi come si trovano le date per suonare?

Eh, bella domanda. È davvero complicato al momento: noi mandiamo mail tutte le settimane a locali, festival, organizzatori di spettacoli. Li cerchiamo sui social.

Ci risponde – se va bene! – il due per cento di tutti quelli a cui scriviamo. Poi capita anche di andare di persona in certi posti per proporsi. Ci sembra che ci siano dei giri ristretti, e se sei fuori da quelli, è molto difficile.

La musica avrà sempre un posto di primo piano nelle vostre vite secondo te? O ci sarà qualcosa, un lavoro, una persona, un viaggio, che potrebbe farvi cambiare la scala delle priorità?

Mah…devo dire che per quel che mi riguarda già ho avuto a che fare con qualche scelta di questo tipo, ma fino ad ora la musica è sempre rimasta essenziale.

Noi pensiamo che la musica sia una passione forte ma che non deve essere escludente per altre cose, anche per altre passioni. Ognuno di noi ha interessi forti al di fuori della musica e per ora riusciamo a coltivare bene entrambe le cose, anzi sono fonti d’ispirazione. Io per esempio faccio gare automobilistiche, faccio scultura, vado in natura, oltre a studiare psicologia all’università.

Immagino quindi che i tuoi testi siano abbastanza cervellotici...! Scherzi a parte, quando scrivi un testo lo pensi direttamente in inglese o prima in Italiano? Hai qualche metodologia per la scrittura?

Direttamente in inglese, ho sempre fatto così. Anche se mi rendo conto che a volte quello che ho in testa poi è difficile farlo passare bene con l’inglese, non avendo la varietà di parole che ha l’italiano. Riguardo a come scrivo, diciamo che mi metto in empatia con la melodia e mi lascio trascinare dalle sensazioni.

A volte esce roba di getto, senza rima, ma che poi serve per la struttura definitiva del testo.

Il nome del vostro gruppo vuole dire qualcosa di particolare per voi?

Vuole dire che qualcosa scorre, come un fiume, che a volte può essere in piena e a volte può essere in secca, ma in qualche modo arriva sempre alla sua foce, e visto che il nostro fiume, il Po, ha un delta..

Qual è la canzone che più vi rappresenta?

Direi il singolo che abbiamo fatto uscire, GTFO, il suo sound ci rappresenta molto anche per come siamo dal vivo.

Qual è la vostra speranza per l’immediato futuro?

Sicuramente quella di fare un tour. Ci piacerebbe fare qualche giro per la regione e non solo, per proporre la nostra musica.

Hell Dorado

Hell Dorado

Artista reggiano, inizia dal rap per poi ricercare e sperimentare, attraverso i generi, la sua musica. Da sempre (si) trasforma e crea per esprimere al meglio se stesso; è autore dei suoi testi.

Dorian a.k.a. Hell Dorado

Cos'è per te la musica?

Per me la musica è innanzitutto una grande passione, una compagna di vita, un modo per riuscire ad esprimermi pienamente. Senza la musica non sarei quello che sono come persona.

Quando ti sei accorto che questa "compagna di vita" era importante?

La prima volta ero in camera di un mio amico, in terza elementare; mi ha fatto sentire su You Tube un pezzo rap, credo di Eminem, e mi sono detto che quella roba era potente. Da lì ho cominciato a cercare anche io quelle canzoni e ho cominciato a formare il mio gusto personale, distaccandomi dai miei genitori che ascoltavano musica francese, jazz, funky. E successivamente ho cominciato a fare canzoni mie.

Ecco, come nasce una tua canzone, o meglio, come nasce l’esigenza di dire delle cose?

Ho sempre avuto fin da piccolo l’esigenza di scrivere cose mie, dalle filastrocche ai temi a scuola, fino al disegno. Infatti quello che mi ha sempre affascinato del rap è l’importanza del testo rispetto alla qualità musicale, anche se oggi le cose sono un po’ cambiate. All’inizio scrivevo emulando altri rapper poi ho sviluppato il mio stile di scrittura.

La tua preparazione musicale è da autodidatta o hai studiato da qualche parte?

Ho sempre avuto fin da piccolo l’esigenza di scrivere cose mie, dalle filastrocche ai temi a scuola, fino al disegno. Infatti quello che mi ha sempre affascinato del rap è l’importanza del testo rispetto alla qualità musicale, anche se oggi le cose sono un po’ cambiate. All’inizio scrivevo emulando altri rapper poi ho sviluppato il mio stile di scrittura.

Hell Dorado - 4 A-M- Cover

Da 1 a 10 quanto spazio occupa la musica nelle tue giornate, nei tuoi pensieri quotidiani?

Direi 8/9. dipende ovviamente da giornata a giornata, ma la prima cosa che faccio quando mi sveglio è cercare le mie cuffie per ascoltare musica, e le trovo subito perché sono l’ultima cosa che ho usato prima di addormentarmi.

La musica ti ha cambiato? Averla così addosso, secondo te ha modificato il tuo percorso di vita?

Si, la musica mi ha cambiato molto, anche perché quando vai a scrivere un testo personale ti guardi dentro, rifletti su te stesso e ti dà consapevolezza di tante cose che poi magari vanno a finire proprio nella canzone. Anche le persone che ho incontrato con la musica hanno segnato alcuni miei cambiamenti.

Hai rinunciato a qualcosa per la musica? E rinunceresti in futuro a qualcosa?

Non mi sono mai trovato a dover decidere tra la musica e altro, se dovesse succedermi in futuro credo che sceglierei spesso la musica perché vorrei arrivare ad esprimermi al cento per cento come cantante e so che dovrò fare sacrifici per migliorare i miei punti deboli. Ma sono pronto!

A proposito di quello che hai appena detto, che obiettivi hai riguardo alla musica?

Non ho l’obiettivo di diventare famoso, a differenza di molti giovani di oggi, il mio traguardo è riuscire ad essere soddisfatto in pieno delle cose che faccio, se poi in futuro dovessero anche piacere ad altri tanto meglio. E se le cose piacciono anche ad altri allora vuol dire che sto facendo le cose bene.

In questo periodo hai fatto uscire un singolo, “4 A.M.”.
Ce ne vuoi parlare?

Questa nuova canzone nasce dall’esigenza di spostarmi un po’ dalla mia zona di comfort: ho cercato di sperimentare nuove sonorità mantenendo al contempo il mio stile di scrittura.

Il brano nasce all’inizio di tutta quella situazione assurda del periodo Covid, avevo appena fatto 18 anni ed eravamo in quarantena. Credo emerga molto l’incertezza per il futuro ed il rifiuto per il mondo degli adulti che mi stava per accogliere in quanto neo-maggiorenne ma che continuavo a sentire estraneo a me. Penso che sia una canzone molto orecchiabile e in cui molte persone della mia età ci si possano rispecchiare.

Come la stai pubblicizzando?

Sto utilizzando i vari canali social, principalmente Instagram, poi su Spotify e su YouTube. Ma soprattutto grazie al passaparola con le persone che conosco. Ne approfitto per ringraziare SD Factory,  lo Studio Seltz ed il fonico Alessio Cairoli che, con la sua competenza, mi ha aiutato tantissimo nella produzione e nell’ottimizzazione musicale del pezzo.

Tu sei stato tra gli organizzatori del primo contest di freestyle a Reggio, ospitato proprio qui in SD Factory, che è andato molto bene e che a breve verrà riproposto. In quella prima edizione ho visto molti ragazzi giovani partecipare e assistere al contest. Cosa consiglieresti a questi ragazzi alle prime esperienze?

Di fare quello che sentono, di non avere paura e buttarsi e cercare di essere originali il più possibile, non solo copiando i più grandi. All’inizio sarà difficile, ma con pazienza e passione uno capisce qual è la sua scrittura e il suo stile.
Bisogna allenarsi molto, e più ti impegni e più sarai soddisfatto dei risultati.

Rapgio Emilia Contest
Sickteens

Sickteens

Giovane band che fa base a Reggio Emilia, si identifica nel pop-punk e nel genere emo, nascono ufficialmente nel 2020

e nel 2021 escono con il loro primo ep.

Alessandro "Alex" Ruzza - voce | Francesco "Gonza" Gonzaga - chitarra | Riccardo "Rick" Bertani - batteria

Sickteens

Parlateci di voi: com’è nato il vostro gruppo e perché vi chiamate Sickteens?

Abbiamo giocato sul gioco di parole tra “Sickteens” e “Sixteen”: il gruppo vero e proprio nasce durante la quarantena, quando tutti e tre abbiamo compiuto sedici anni. Ci conosciamo da tutta la vita e da sempre, all’occorrenza, abbiamo collaborato e suonato insieme. Ma prima della pandemia lavoravamo solo io e Gonza con altri artisti. Durante la quarantena invece abbiamo sentito la necessità di fare qualcosa e lavorare insieme a qualcosa di nuovo. Il nome rispecchia anche quello che vogliamo fare e arriva dal modo in cui ci sentivamo durante quel periodo: “gioventù malata”. Durante il Covid ci siamo sentiti più stretti, più chiusi, più “malati” in testa, volevamo fare i pazzi.

Un aneddoto sulla nascita del vostro gruppo?

Uno dei primi ricordi è di quello che ci ha unito è quello di una chat che abbiamo creato durante la quarantena, appunto, che si chiamava I film di sera: commentavamo i film che guardavamo in contemporanea, ognuno a casa sua. Dal guardare i film siamo passati a diverse stesure di testi. Poi c’è stato quel mese in cui eravamo in zona gialla e ci siamo incontrati e abbiamo registrato uno dei nostri primi video freestyle. È stato strano rivedersi dopo quattro mesi: la cosa bella è stata vedersi già diversi dopo quel poco tempo, era come vedere persone nuove. Da quella sera e da quel video è nata l’idea di fare un disco insieme.

Facciamo un po’ di cronologia: vi siete incontrati alle medie, quindi a circa dodici anni, tutti e tre già avviati alla pratica musicale (dettaglio non scontato). Come sono stati i rispettivi inizi? Come vi siete avvicinati alla musica?

Gonza: Probabilmente non ascoltavo neanche musica all’epoca; però mio fratello aveva comprato una tastiera, una di quelle con cui si inizia, e casualmente ho iniziato a suonarla. Ho iniziato con la musica classica e il pianoforte, mi interessavano solfeggio e armonia, ho studiato per cinque anni.

A un certo punto mi sono chiesto se non fosse più divertente suonare la chitarra elettrica e così  è iniziato anche il discorso delle produzioni, casualmente, quando ho scaricato alcuni programmi sul pc e abbiamo iniziato a fare delle prove.

Alex: Io ho iniziato molto presto, vengo da una famiglia di musicisti: mio padre era nella banda dell’esercito e ha fatto il conservatorio. Mi ha trasmesso la passione per il cantare: ho toccato anche vari strumenti ma non mi sono sentito appassionato come per la voce. Mi ha sempre portato in giro per i suoi concerti, da piccolo. Poi ho iniziato a studiare a otto anni ma ho smesso subito, a dieci, e da lì il percorso è stato più semplice, per certi versi: ho incontrato dei ragazzi nella zona in cui abitavo che mi hanno detto: “Tu da oggi fai freestyle con noi”, così senza una motivazione, ma sono andato ed è stato così che ho iniziato. Vengo dal rap e dal pop-rock e la mia scuola di musica sono stati i campetti e i parchi. Alle medie non avevo ancora una concezione ampia di musica e mi focalizzavo solo sul rap, ma mi sono subito concentrato sullo scrivere: poesie, in italiano, su di me, su come mi sentivo. Poi ho smesso di fare freestyle perché i ragazzi con cui rappavo se ne sono andati, e ho iniziato a scrivere testi interi, ed è stato in quel periodo che ho capito che era una cosa che mi piaceva fare, che sapevo fare e che avrei voluto fare. Ho iniziato quindi a dedicarci tutto il tempo che avevo. L’arrivo al pop punk è stato il passo finale: mi sono sempre piaciute chitarre e melodie. Ci siamo chiusi in montagna con Gonza qualche giorno, senza linea, telefono, niente, solo suonare ed è nato un progetto emo-trap. E poi, dopo un po’, abbiamo sentito esigenza di aggiungere una batteria vera, perché fino a quel momento le avevamo usate solo digitali.

Rick Ho iniziato molto presto con la batteria; mio padre mi ha sempre spinto a fare lezione di musica, forse perché l’ha sempre voluto fare lui, e mi ha sempre detto: “Fidati che un giorno non te ne pentirai”. Dopo aver provato vari strumenti, alla scuola di musica di Canali, ho provato la batteria, che sentivo passare attraverso ogni muro con la sua confusione. E da quel momento son partito e non ho mai più smesso, vado a lezione tutt’ora alla Drum Professional School del quartiere Orologio.

Sickteens bw

Ora siete alle superiori e fate scuole anche abbastanza diverse tra loro; come gestite la vostra vita musicale e tutto il resto (scuola, relazioni, interessi)?

Eh, infatti siamo disperati! Ogni sera nella nostra chat nasce una crisi isterica per il fatto che vogliamo produrre cose ma nello stesso tempo abbiamo anche la scuola – e tra di noi c’è chi ha esigenza di portare avanti le cose più che bene, perfette! Ed è giusto. Personalmente non ho tanti problemi di studio e mi sono organizzato in modo tale da tenermi sempre una parte della giornata, la sera, per fare quello che voglio e creare bozze che poi mando a loro.

Il tempo materiale per fare le cose comunque ce l’abbiamo il sabato quando ci ritroviamo tutti e tre in studio. 

 

Per quel che riguarda le scelte: tutti e tre abbiamo già lasciato alcuni sport; se vuoi fare le cose fatte bene non c’è tempo per tutto.

 

Per quel che riguarda le relazioni: non può cambiare l’obiettivo perché qualcuno te lo chiede. Non smetteremo di fare musica e non rinunceremo al tempo che vogliamo dedicarle per una relazione d’amore. E forse questo, cioè che nessuno riesce a distoglierci dalla musica, dipende soprattutto dal fatto che siamo amici che si conoscono da tutta la vita. E questo è il cuore della nostra band. Abbiamo sempre avuto persone che sono entrate in studio con noi, che stavano lì mentre facevamo musica, sapendo che poi, una volta finito, sarebbe venuto il tempo di uscire, e non il contrario. Se non fosse stato così quelle persone non sarebbero state lì. E comunque è molto importante avere persone attorno perché sono fonte d’ispirazione, ti danno qualcosa da raccontare.

Avete dei modelli?

Alcuni ci definiscono vicini alla nuova era pop-punk che sta nascendo adesso in America.

Veniamo da background diversi: musica classica, rap e rock anni Settanta. Questo secondo me ci ha aiutato un sacco, è un arricchimento reciproco totale. A volte siamo anche in contrasto ovviamente, ma alla fine nasce sempre qualcosa.

Uno dei termini che più avete usato è “produzione”. Come nasce una vostra canzone e quali sono gli argomenti che più trattate?

L’ultima canzone che è uscita è nata così: da una settimana suonavo un riff a caso, lui l’ha sentito e ha iniziato a farci sopra il ritornello che aveva già in mente. Tutto il resto è venuto un po’ pian piano, ma sì, di solito accade così: prima la musica poi il testo e alla fine la batteria. E comunque noi facciamo tutto insieme: mando tutti i testi a loro così che possano correggere le parti che vogliono correggere e inseriscano quello che vogliono inserire: in tutti i pezzi c’è una parte al singolare in cui la “voce narrante” è la mia, ma poi c’è anche il pensiero e il contrasto di tutti. Voglio che la musica sia la nostra, che rappresenti tutti, quindi dalla chitarra fino al testo, tutto è condiviso. 

 

Le produzioni che facciamo sono lente, per via del tempo che abbiamo per vederci, ma sono molto curate perché noi non facciamo mai una cosa che ci piace e poi la chiudiamo lì: deve continuare a piacerci anche un mese dopo, parecchio, ed andare bene in tutto. 

In generale, facciamo le cose molto a sentimento: se una bozza ci preme tanto da continuare il brano allora sappiamo che quel brano andrà bene e lo lavoriamo finché non è esattamente come lo vogliamo. 


Per quel che riguarda gli argomenti che tocchiamo, in generale partono da quello che mi trasmette la base, ma tendo a parlare di me, di legami, storie già successe. In Sometimes, l’ultima uscita, parliamo dei tre mesi dell’estate dopo il covid: tre mesi di libertà, di hangover, in cui ci risvegliamo, non sappiamo neanche che giorno sia, ma è un pezzo molto felice, molto allegro.

Sickteens flash

La musica vi ha cambiati?

Gonza: Sì, assolutamente, tantissimo. Per quel che riguarda me, per quel che riguarda l’aspetto e la personalità, ti fa crescere nel come ti senti con te stesso.

Rick: Sì, la musica è come una grande amica, non ti senti mai solo e sai che ti accompagnerà per tutta la vita. È un punto fisso.

Alex: Credo che mi abbia dato più sicurezza: scrivere quello che senti e vedere che può colpire anche altre persone, che riescono a rispecchiarcisi, è molto forte. È curativa, è educativa. Senza la musica non saremmo gli stessi. 

Come sta andando il vostro progetto finora e che prospettive avete?

Per quel che riguarda l’immediato futuro: sicuramente ci piacerebbe lavorare bene sulla dimensione del live, che per ora non abbiamo mai sperimentato ma che è importante.

 

Poi ci piacerebbe molto avere un videomaker che ci riprenda durante la quotidianità perché si capirebbe molto il nostro lavoro e la nostra identità di band. Credo che sia importante raccontare il nostro tempo insieme, la nostra amicizia, dal fare le vacanze all’uscire la sera, dal vederci per fare musica al modo in cui parliamo e scherziamo. Siamo una via di mezzo e i due estremi opposti, abbiamo tante sfumature di caratteri qui che vanno dal più estroverso e chiacchierone, al “question mark”, al mediatore. E questo mix viene naturale, è un mood che non abbiamo con altri e ci divertiamo tanto.

Per quel che riguarda il progetto e come sta andando: abbiamo avuto anche alcune soddisfazioni personali; ad esempio alcune settimane fa siamo andati a Milano per parlare con una giovane etichetta che è interessata al nostro lavoro e ci ha contattato per un pezzo che abbiamo fatto in inglese, che si chiama Sometimes, che segue il filone del pop-punk. Nel caso in cui ci indirizzassero verso i talent, noi valuteremo “a che costo”, perché ci teniamo a mantenere la nostra integrità anche di linea di pensiero.

In generale, comunque, ci occupiamo noi stessi della comunicazione e della promozione del nostro progetto: creiamo noi stessi le nostre grafiche, montiamo i nostri video e appena esce un pezzo lo spammiamo tra i nostri contatti.

 

Abbiamo avuto anche l’idea, qualche mese fa, di stampare dei poster e appenderli in giro tra Reggio e Bologna, con il QR code della nostra pagina Spotify… Sappiamo, però, che nel momento in cui carichiamo il pezzo il nostro lavoro in un certo senso è finito e che dobbiamo anche lasciare che le cose facciano il loro corso.

Sickteens poster
CIOKO

CIOKO

Giovane rapper reggiano che ama la poesia e vuole creare musica bella, in cui mettere messaggi che arrivino alle persone.

Cioko

“Cioko” è il tuo nome d’arte. Dicci da dove arriva.

Mi chiamo Mike, in arte Cioko. L’ho scelto per per via del mio colore della pelle, che quindi è cioccolato (al latte), ma anche per un gioco di parole che si crea con questo riferimento al cioccolato, al dolce quindi, alla musica che faccio, che non è così dura o aggressiva.

Quando hai deciso di chiamarti così?

Questo nome viene dal periodo del Writing, quindi da quando ho incominciato a disegnare, sei o sette anni fa.

Il tuo primo incontro con la musica quando è stato e com’è stato?

A scuola, alle superiori: ho iniziato a scrivere testi in italiano, poesie d’amore, per l’esattezza, da dedicare alle persone che mi piacevano. Poi ho visto il mio primo concerto, persone della mia età (che poi sarebbero diventati miei amici) che facevano rock: vedere loro cantare sul palco, la carica che aveva la gente per il solo fatto di stare lì, il mio non pensare a nulla al di fuori del concerto, mi ha affascinato tantissimo. Le prime canzoni che ho scritto venivano dal mio passato, sono quelle sulla mia storia: anche da quello che è successo di più brutto o dai periodi più negativi è venuto fuori qualcosa.
Ho fatto anche testi su quando ero piccolo, sulla mia vita da bambino…testi in cui ho buttato dentro tutto, che sono stati uno specchio.

Quindi i tuoi sono testi autobiografici?

Sì, la maggior parte sì. Ultimamente però mi sono messo a fare dei testi che cerchino di spiegare il perché di qualcosa. Ad esempio: mi sento in un certo modo e mi immagino tante altre persone che si sentono nello stesso modo e cerco di raccontare le sfumature e i dettagli possibili di quella sensazione.

Cioko. PH. Jasmine Puccio

Dalle poesie a testi di canzone: la musica com’è venuta?

Stavo lavorando come cameriere in un bar che faceva musica dal vivo, a Campogalliano, avevo 19 anni; quella sera c’era un ragazzo che suonava il sax. Mi sono appassionato subito a quello strumento e da lì ho iniziato ad approfondire. Poi mi è stata data la possibilità di partecipare a un contest in cui le persone potevano portare vari pezzi, cover; io invece sono arrivato lì impreparato, ma con un mio testo e la mia base musicale presa da YouTube e ho provato a cantare su questo beat jazz blues. Ho iniziato così, con suoni che ti fanno vibrare dentro, più riempitivi, prima che con il rap.

Scrivevi prima il testo e poi cercavi la base o viceversa?

Di solito prima cercavo la base e poi ci mettevo sopra il testo; ma dipende in realtà, perché a volte è il testo che viene fuori da solo perché hai qualcosa da dire, hai bisogno di uno sfogo. Se vado a cercare prima la base e faccio dopo il testo il processo è diverso, più dettagliato.

Hai mai avuto voglia di imparare uno strumento?

Voglia sì, impegno non ce l’ho mai messo. In famiglia i miei fratelli più grandi hanno sempre suonato ognuno uno strumento, io con la memoria faccio fatica quindi non mi ci sono mai dedicato. Poi per me la cosa più importante è la scrittura, quella che sento più mia è la parte dell’autore, del cantante.

Hai già pubblicato dei pezzi?

Su Soundcloud ho dei pezzi, ma, a parte uno, sono tutti con delle basi prese da Youtube. L’ultimo appunto me l’ha fatto Dada, che è il compositore, ed è uscita un anno fa e si chiama Neontown. Parla di un luogo (l’abbiamo chiamato noi così) in cui ci ritrovavamo con i miei amici e dove abbiamo fatto il nostro primo disegno. In realtà abbiamo ribattezzato vari luoghi della città con nomi nuovi, che a noi dicessero qualcosa. Per dire, che so, “Vado a Neontown”…

In generale, mi piace il fatto di dare la possibilità, da un’invenzione, di crearsi un piccolo mondo personale.

Cioko. PH. Jasmine Puccio

Quanto tempo dedichi alla musica nella tua vita?

Una bella domanda; io adesso lavoro, e tanto, quindi non saprei quantificarlo, ma posso dire che alla musica penso sempre, cerco sempre degli spunti, ci sono dentro, sempre. Poi ok, quando vado in studio sono tutto lì, immerso.

Quante canzoni hai pronte?

Cinque pronte in featuring e quattro singolarmente.

Cosa ti aspetti da te e dalla tua musica, hai degli obiettivi?

Dalla musica non mi aspetto nulla ma mi aspetto che alle persone piaccia quello che faccio e che arrivi il messaggio che metto dentro i miei pezzi, mi interessa un loro riscontro. Cerco quindi di mettermi alla prova, di fare dei live... Cerco di fare una musica bella che sia ascoltabile da più persone.

Raccontaci le emozioni del tuo primo live.

È stato l’ultimo giorno dell’anno, di due anni fa, al Lab AQ16 a Reggio Emilia. Sai che c’è sempre l’ansia prima di salire sul palco, soprattutto per la prima volta, non sai come ti senti, non sai come devi fare. Per me invece è successo così, ed è stato il suo bello: ho avuto la fortuna di avere un’amica lì a quella festa che è venuta, così, in modo scherzoso a dirmi: “Ehi Mike, saliamo sul palco, ti va?” e io subito a dire nella mia testa: “No, no”. Dopo due secondi invece ho detto: “Sì, okay”. Non c’era nulla di preparato ma lei è andata a chiedere agli organizzatori se potevamo salire. Mi ci ha proprio portato lei, se non lo avesse fatto, io avrei fatto molta fatica ad andare, anche se ci pensavo già da diverso tempo e avevo una canzone pronta. Ho detto sì e poi non ci ho più pensato, non volevo altri pensieri che mi facessero tornare indietro. Dopo un’ora è arrivata, mi ha preso per mano e mi ha portato verso quei tre scalini che portavano sul palco. Mi avrebbero fatto cantare nello spazio tra due band invece che mettere della musica, com’era previsto. Sapevo che poteva andare bene o andare male, ma non sapevo niente. Giù dal palco c’erano due miei amici e quindi ho tenuto sempre gli occhi su di loro, cercavo loro mentre cantavo. E alla fine è stato bello e ho ricevuto il mio primo applauso. Questo mi ha dato la carica per il live dopo, per rifarlo! È stata una bella emozione, davvero. Dopo c’è stato il Covid e la situazione era quella che era quindi, tutto fermo, e in più perdi anche un po’ il ritmo, inizi a farti dei viaggi mentali che ti portano a pensare che magari quella volta era andata bene ma chissà…

Alla fine poi ci ho riprovato a salire su un palco e ci sono riuscito; era un contest e non avevo niente da perdere quindi mi sono detto: “Perché non provare?”. Il contest era quello del 4 giugno scorso, qui all’SD Factory. Per ritornare alla tua domanda di prima, la musica mi ha fatto voglia di sperimentare, mi sono reso conto che non ho nulla da perdere e che posso dirmi: “Prova, prova, prova!”.

Cioko. PH. Jasmine Puccio

Quindi la musica è anche formativa per la vita, ti dice: “Provaci, non hai nulla da perdere!”

Sì, assolutamente. Anche caratterialmente fa tanto! La musica è anche uno sfogo, certo, però mi ci sono impegnato tanto per una questione di benessere personale. C’è stato un periodo, anni fa, in cui ero timido e mi sono detto: “Insomma, se voglio fare il cantante devo esibirmi di fronte a della gente!” e io però avevo anche cercato quel percorso. Alcuni miei amici hanno accantonato la voglia di cantare perché appunto l’idea di andare sul palco e dover trattenere quelle emozioni che arrivano li metteva a disagio; a me è venuta voglia di provarci. Anche perché, appunto, nella mia testa, non ho nulla da perdere. Mi ha cambiato, in meglio.

A te piace sperimentare generi, modi di cantare e testi diversi.
Ti sei posto dei limiti?

Di limite di sicuro c’è quello che non so suonare, ma comunque questo non è limitante perché in realtà mi permette di aggregare più persone alla mia musica. Visto che mi piace più la musica dal vivo rispetto a quella digitale, questo significa che devi interagire, beccarti con le persone, fare gruppo. L’idea di riuscire ad aggregare tutti, fonico, batterista, … mi piace un sacco.

Altri limiti che ci sono: ad esempio, il fatto che non mi piace la musica aggressiva, non è il mio genere, io ascolto jazz blues, quindi più sentimentale. Poi dipende chiaramente dalla canzone e dai periodi che uno vive.

Quindi sei un rapper più “poetico”.

Sì, mi piace di più la poesia e l’intonazione, i cambi di voce, fare note più alte e poi riabbassarle.

Hai mai pensato di fare lezioni di canto?

Sì, ci ho pensato ma non ho mai avuto ancora la voglia di farlo. L’esperienza che ho deriva dalle registrazioni in studio, partendo dal primo in cui sono stato in Via Turri, in casa di un mio amico, dove per la prima volta ho visto un pc con Ableton, ecc…, fin qui, allo Studio Seltz di SD Factory. Ora riesco a capire tecnicamente molte più cose e riesco a indirizzare la realizzazione della mia musica parlando con chi mi segue in studio.

La musica secondo te potrà costringerti in futuro a fare delle scelte anche di una certa importanza?

Sì, penso di sì. La scelta principale ora è quella di lavorare! E da quando ho preso questa decisione il tempo per la musica si è ridotto, mi rendo conto che prima facevo molti più testi, ero sempre immerso. Ma è una decisione che ho preso non solo per necessità ma anche per desiderio di stabilità mia personale, per togliermi dall’idea di non fare nulla (ho fatto un anno senza lavorare, così, “libero”). E mettermi nell’idea invece di fare qualcosa. Lavorando otto ore magari vengono in mente meno temi o spunti di riflessione rispetto a quando ero in giro tutto il giorno. Ma, ecco, mi dico: “Facciamo tutte e due le cose!”.

Che obiettivi hai ora?

L’obiettivo è quello di fare uscire per l’estate il brano prodotto qui da SD Factory. Poi vorrei farne uscire uno anche che si intitola Disegno candelotti, un pezzo rappato, molte parole. E, a fine estate, fare uscire tutto l’album.

Aessio Cairoli

Alessio Cairoli

Tecnico dello Studio Seltz e fonico di SD Factory, Alessio Cairoli ha iniziato il suo rapporto con la musica dalla culla, tra dance ed edizioni in VHS del Festivalbar. In questa intervista ci racconta come è cambiato nel tempo e cosa significa ora che la musica è diventata anche un lavoro.

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Caro Cairoli, parlaci del tuo primo contatto con la musica, la primissima cosa che ricordi del mondo della musica.

Allora, io ho un problema con la memoria, nel senso che tendo a dimenticare, soprattutto quel che riguarda il passato e quello che non ho vissuto bene. Il ricordo più vivido risale alle elementari quando mi facevano fare sempre il cantante solista nei concerti di Natale o cose del genere della scuola.

Perché te lo facevano fare? Come si sono accorti che cantavi bene?

Perché sono sempre stato attaccato alla musica, fin da quando son nato. Mia mamma ascoltava musica anni ‘90, mio padre suonicchiava la chitarra per hobby, ma quando si facevano i viaggi in Bosnia si ascoltavano sempre Vasco Rossi, Davide Van de Sfroos, ecc… . In realtà mi hanno raccontato questo aneddoto di quando ero proprio appena nato e piangevo e le infermiere dell’ospedale hanno messo una radio accesa accanto alla mia culla. Oppure ancora, verso i miei due, tre anni, quando mia mamma era ancora a casa per maternità, metteva su per me in VHS il Festivalbar mentre faceva le pulizie di casa e io ero lì che ascoltavo tutte le puntate che aveva registrato lì sopra. Io stavo lì ore, immerso nella musica. Per me la musica è qualcosa di completamente naturale, è una qualità, un ambiente, un’arte che per me è una persona che conosco da sempre.

La tua prima esperienza è stata cantare quindi, e il passaggio successivo?

Intorno ai 10 -11 anni,  quando scaricai un programma per computer che permette di scrivere in digitale degli spartiti , alla sera aprivo il programma e, probabilmente per il fatto di aver sempre avuto musica nelle orecchie, istintivamente riuscivo a capire le varie armonie. Si potevano interfacciare tra di loro quindi ero cosciente che quello che stavo mettendo poteva suonare; magari incominciavo da una frase a caso e poi dopo mi veniva un’idea e componevo tutto il resto. Ovvio che lo spartito che conoscevo era di quelli che si studiano a scuola quindi le basi, le note posizionate, la chiave di violino e basta, però era abbastanza, sufficiente. Poi, successivamente, all’età dei 11-12 anni, in seconda-terza media ho fatto due anni di tromba perché c’era nella scuola di musica di Pieve di Guastalla una borsa di studio, però la cosa non mi prendeva; prima di tutto perché il processo di insegnamento era lento e poi perché io non volevo studiare i brani perché mi annoiavano. Preferisco molto di più l’approccio pratico alla musica. In secondo luogo c’era una tabella di marcia che io non volevo rispettare, volevo andare subito verso cose blues e jazz! Dopo due anni ho lasciato e all’età di 14, in prima superiore, mio padre mi ha comprato una chitarra acustica, una fender dell’ottantasei made in Korea che ho ancora. Ora ascolto musica di tanti generi, anche per conoscere sempre più cose.

Alessio Cairoli

Quanto tempo della giornata dedicavi alle pratiche musicali?

Almeno tre ore, mi piaceva stare sugli strumenti magari anche la notte. Andavo a scuola, a casa mangiavo, guardavo un po’ la TV, poi musica..  Anche perché i miei coetanei giocavano a pallone, a me non piaceva, quindi mi dedicavo allo studio della mia passione.

A differenza di molti musicisti, mi sembra di capire che tu hai fatto una scelta diversa, cioè quella di stare dietro le quinte.

Si, già all’età dei 14 anni avevo fatto un ragionamento: volevo comporre per me stesso e non per altri, e non compongo quando non voglio. Comporre per me non è una forzatura, se lo dovessi rendere un lavoro, tipo fare un brano al giorno per sopravvivere, non ce la farei.  L’evoluzione di questo ragionamento è stata una sempre più frequente attività di di mixaggio, cercavo un  miglioramento sonoro che avveniva tramite Internet, la mia ricerca personale era diventata un’ossessione,  accompagnato dal fatto che facendo i 18 ho iniziato a fare anche i service fuori. Però mi diverto anche suonando il basso in un gruppo di amici, facendo la musica che piace a noi.

Qual è stato il tuo primo service?

A Campagnola Emilia, per un gruppo di rockettari. 

Tu hai appena finito un corso di  “tecnico del suono” dell’accademia nazionale del cinema di Bologna, come pensi che proseguirai la tua formazione? Che progetti hai, come ti vedi nel futuro fra qualche anno?

Mah...Allora, mi piace molto quello che sto facendo qui a SD Factory, ma vorrei provare ad entrare nel mondo dei professionisti,  che sia nei service audio in situazioni importanti, oppure in un qualche studio di registrazione un po’ più alto con delle prospettive professionali...Ma sono ancora giovane e ci penserò!

Hai dovuto rinunciare a qualcosa per perseguire la tua passione?

Come ho già precedentemente detto, la musica è stata da subito la mia grande passione, quindi non ho fatto grandi rinunce proprio perché era lei il mio obiettivo.. Poi si, qualche situazione magari c’è stata...All’età di 18 anni,  quando iniziavo a fare i service, capitavano serate il venerdì, il sabato e la domenica, quindi invece che uscire con gli amici andavo a lavorare, ma non è mai stato un disagio per me. Poi poter vivere una passione senza chiedere soldi ai miei mi gratifica molto.

Ecco, riguardo a questo argomento, visto che sei giovane e già stai guadagnando con la musica, ma sei sempre molto impegnato anche nei fine settimana, se dovesse arrivare “l’amore”, cambierebbe qualcosa?

Credo di no, io non credo nei rapporti amorosi dove ti devi sacrificare per l’altra persona e viceversa.  La persona che deciderà di starmi vicino, penso che fin da subito rispetterà i miei tempi come io i suoi. Se cosi non fosse, allora saranno note dolenti. Vedi, sempre di note alla fine si parla!

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